Fatacarabina

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sabato 3 gennaio 2009

L'hotel degli onti

Prendeva trecentomila lire al mese e ne arrivava ad ospitare anche venti per volta. Che facevano sei milioni al mese. Un angolo dove posare il tappeto per pregare veniva diecimila lire al giorno. Tanto spazio ce n'era, la sua casa era grande. Su due piani, con grandi finestre. Riscaldamento? No, che si arrangiassero quei quattro "onti". Per quei soldi, all'hotel dei diseredati, mica c'era spazio anche per un degno riscaldamento. I materassi li metteva a disposizione lui, venti o di più se c'era richiesta, gettati direttamente a terra senza troppi problemi. Le preghiere erano permesse solo nella sala al pianterreno e ogni problema andava risolto con il custode. Per i bagni, si faceva a turno. Chi prima arrivava, era contento. Unica regola, alle 7 di mattina, tutti fuori. Anche se nevicava, anche se un lavoro non lo avevi o eri in preda alla febbre e alla diarrea, entro le sette dovevi esser fuori, con il tuo sacchetto pieno di stracci. "Nde a lavorar, onti", era il richiamo. Ogni mattina via Wagner ospitava così il lento pellegrinaggio dei clandestini che lasciavano il loro hotel. Marocchini, albanesi, romeni, tanti nordafricani. Quelli che erano di religione islamica facevano in tempo a far la prima preghiera, poi si arrangiavano sul posto di lavoro o per strada, visto che dietro avevano tutto, anche il loro tappetino. Nulla si poteva lasciare nella casa, e quando rientravi la sera, rigorosamente dopo il tramonto per non dare nell'occhio - questa era una delle altre regole dell'hotel - ti cercavi il primo materasso libero, senza chiedere di tornare al posto dove avevi dormito la sera prima. Un martedì nel tardo pomeriggio il piccolo corteo di clandestini arrivò all'inizio della strada e trovò le luci delle sirene della polizia. E il custode, un ex pugile in pensione, zitto e stralunato fermo davanti al cancello. Un poliziotto di spalle gli parlava, con un tono della voce alto. Urlava quasi. Il vecchio pugile, Dante, stava zitto ma con gli occhi cercava di far segno al gruppetto che sopraggiungeva di andarsene, sparire. Erano bastate le luci delle volanti terrestri a metter nel panico i clandestini, che girarono subito i tacchi e se ne tornarono in strada, a passo veloce, per non farsi notare. Dante si rilassò e cominciò a ripetere al poliziotto con voce sommessa che lui era solo il custode della casa, che quella gente non la conosceva, e non sapeva quanto pagavano. Maria Ponchioni, che abitava in una casetta bassa davanti alla villa, ascoltava, con le braccia appoggiate al cancello della sua casa, e scuoteva la testa. "Lo sa quanti soldi prende il padrone, lo sa bene", mi disse quando le arrivai accanto. "Quanto?", le chiesi. "A mi no so, i dise trecentomila lire , dottoressa. Al mese. I xe schei sa e li ciama sempre onti". Erano tanti soldi, sei milioni almeno al mese. Per dar da dormire abusivamente a clandestini. Un reato. Ma io volevo vedere in faccia chi era questo proprietario così prodigo nell'assistenzialismo, a caro prezzo. E così aspettai che la retata finisse, che le luci delle sirene si spegnessero e che Dante se ne andasse. Lo seguii fino al bar fuori della strada, aperto 24 ore su 24. Si accomodò al banco, bianco in volto e chiese un bicchiere di vino bianco. "L'ombra gliela offro io", dissi, arrivandogli alle spalle. "Dottoressa cossa a vol ancora...", fu la risposta dell'ex pugile. Gli dissi cosa volevo: il nome e l'indirizzo. E dopo la prima "ombra", pagai tutta la bottiglia di prosecco che finì a fianco di Dante. Il sopracciglio con la cicatrice, forse un ricordo di vecchie botte, si alzò. Dante sorrideva. Gli piaceva bere, avevo colto nel segno e il regalo era ben gradito. Mi disse il nome quando era arrivato a metà della bottiglia, dopo aver raccontato che lui non c'entrava, era solo un custode. Prendeva 100 mila lire al mese e a lui bastavano. Me ne andai contenta, salii in macchina e presi la strada del Terraglio, direzione Preganziol. Arrivai all'indirizzo indicato, c'era un'altra villa, ancora più grande. Chiusa. Al campanello non rispondeva nessuno. Accanto c'era un albergo con una piccola trattoria. Entrai, non c'era nessuno al bancone. Urlai il nome del titolare. Arrivò dopo 5 minuti, era spuntato da una tenda blu di velluto pesante e si stava sistemando la patta dei pantaloni. Prima i convenevoli di rito, il suo sguardo che finisce sulla mia scollatura, la sua risata e la battuta. "Finalmente una bella signora, in questo posto di uomini e onti". Sorrisi. Poi partì la domanda . "E' sua la casa di via Wagner, vero?". Vincenzino, questo era il suo nome, smise di ridere. "Sì, perché. La vuole comperare? ". No, gli risposi, pronta, volevo vedere le ricevute dell'hotel. "Quali ricevute, quale hotel, Lì c'è casa mia", ribatté infastidito Vincenzino. Gli spiegai della retata, della casa sotto sequestro, dei 25 materassi trovati e dei racconti del vicinato. "Lei guadagna sulla pelle di poveri disgraziati. Sei milioni al mese. Quindi, cacci fuori le ricevute". Vincenzino posò il bicchiere d'acqua che stava bevendo e passò dall'altra parte del bancone, con passo deciso, e urlandomi che mi voleva fuori dal suo locale in un secondo. Altrimenti, chiamava la polizia. Lo osservai meglio: capelli neri con evidenti tracce di forfora, due denti d'oro, tarchiato e basso. Una lunga catena d'oro che scendeva sul petto, visibile dalla camicia aperta. La collana sosteneva un enorme crocefisso d'oro e madreperla. Nella tasca dei pantaloni, c'era qualcosa. Forse un coltello a serramanico. Feci finta di non notarlo, ma feci un passo indietro e mi ricordai, che come al solito avevo lasciato la pistola in ufficio. "Per sua sfortuna, Vincenzino, la polizia sono io", ribattei pronta, mostrandogli il distintivo che tenevo sulla tasca della camicia, sotto la giacca. Lui si fermò, evidentemente sorpreso, e tornò a sorridermi. E mi spiegò che aveva cominciato per dar una mano a quei poveri ragazzi, che lui aveva origini libiche e sapeva cosa era la fame. Ma che la casa era grande e quei poveri ragazzi dovevano in qualche modo concorrere alle spese del riscaldamento. E poi lui era buono, ogni mattina c'era caffè e latte per tutti e le brioches comperate al supermercato, quelle nel sacchetto di cellophane. E Dante, il custode, teneva pulito tutto. C'era persino sempre lo shampoo. Balle, un fiume di balle, raccontate da Vincenzino, per evitare guai.
Chiamò anche suo padre, don Mario, che arrivò tutto vestito di nero, con un bastone da passeggio. Vecchissimo, aveva la camminata di un ragazzino e l'occhio furbetto. "Piacere, don Mario. Mago per diletto". Si presentò così e io scoppiai a ridergli in faccia. Era lui il mago di cui mi aveva parlato Dante, quello che faceva paura anche agli arabi perché rischiavi una fattura seduta stante , se non facevi quello che voleva lui. "Bella signora, siamo brava gente", mi ripeteva Vincenzino, oramai spavaldo perché erano in due contro una donna. Senza pistola, mi dissi io, ma loro non lo sapevano. "Fuori ricevute e i soldi", ripetei serissima e per confermare che non scherzavo, superai don Mario, dribblai il braccio teso di Vincenzino e mi diressi alla cassa dietro al bancone. Dove c'erano dei libri contabili, avevo visto poco prima. Mi misi a sfogliarne uno, poi un secondo. Trovai l'elenco delle visite all'hotel dei diseredati, evidentemente Vincenzino prima di andarsene al bagno, stava sistemando i conti del giorno. C'erano 5 milioni e 500 mila lire in una busta, la scritta con la cifra forse era quella di Dante tanto la calligrafia era stentata. C'era l'elenco degli "onti" del giorno, venti esatti. I soldi erano meno di quanto previsto, forse qualcuno non aveva pagato. Mentre guardavo, Vincenzino avanzava lentamente verso di me, chiedendomi di lasciar perdere o sarebbero stati guai seri. Che lui aveva amici importanti ed io non ero nessuno, ero solo una commissaria arrivata ieri con decorrenza "ancuo", ripeté più volte. Lo squillo del telefonino ci colse entrambi impreparati. Era il mio e mi precipitai a rispondere . Era Otello, il capo pattuglia. Io neanche aspettai finisse di dirmi ciao: "Allora ispettore, siete qui fuori? Aspettate da tanto? Ah, non vedeva la mia auto. Ok, aspettate il mio segnale". Otello non era scemo e aveva capito che era una richiesta di aiuto. "Avete fatto il controllo al terminale? Non risulta? Impossibile, si chiama locanda Antico Grappolo, non all'Antico Grappolo. Dai, ragazzi, è tardi per tutti, eh....sveglia!". L'indicazione l'aveva avuta, massimo in 5 minuti le volanti sarebbero arrivate. Continuai a far finta di parlare al telefono anche se Otello aveva messo già giù. Presi il librone sotto braccio e la busta con i soldi e mi diressi alla porta, scansando un Vincenzino che si era accoccolato per lo spavento su una sedia. Don Mario alzò il bastone in aria, maledicendomi, quasi volesse colpirmi. Io mi diressi senza guardarmi alle spalle verso la macchina e accesi il motore. Buttai il telefonino sul sedile del passeggero e misi in moto, partendo a tutta velocità, inseguita dalle bestemmie di padre e figlio. Imboccai il Terraglio, direzione stazione e incrociai l'auto di Otello che a tutta velocità si dirigeva verso la locanda. Lo chiamai al cellulare. "Sono padre e figlio, Vincenzino e don Mario Capatone. Finisci tu il lavoro che io ho da fare". Tornai al bar vicino a via Wagner e trovai Dante, oramai ubriaco, seduto su una sedia. Lo costrinsi a seguirmi e andai in stazione. Chi non ha da dormire finisce qui, specie da dicembre quando il Comune ha ottenuto che la sala d'aspetto sia aperta di notte per i senza tetto. Dante mi seguiva , con la faccia bassa. Mi misi in mezzo alla sala d'attesa, era piena di uomini e ragazzi, e cominciai a scandire i vari nomi che avevo trovato sull'elenco di Vincenzino. All'inizio nessuno mi rispondeva, poi un ragazzo, Ahmed, quando pronunciai il suo nome mi rispose con un cenno. Andai da lui e gli misi in mano trecentomila lire prese dalla busta dei soldi. Andò avanti così per due ore. Poi, a notte fonda, portai a casa Dante. Oramai aveva smaltito la sbornia. "Ha fatto bene dottoressa a ridargli i soldi, sono bravi fioi in fondo", mi disse salutandomi con la mano. Non gli risposi niente, ripresi a guidare fino in Questura. Aveva collaborato, ma una denuncia se la sarebbe presa comunque. Nel corridoio mi aspettavano, seduti come due bambini in castigo, Vincenzino e don Mario. Mi guardarono con odio. Passai oltre, salutandoli sorridendo e facendo ciao ciao con la mano. "Buonanotte, onti".

5 commenti:

Unknown ha detto...

Che bello... grazie per questo racconto

Anonimo ha detto...

Sei bravissima!

fatacarabina ha detto...

Grazie, siete troppo gentili

vix ha detto...

a roma se dice che "voj fatte tira' a carzetta", in albione "fishing for compliments.

questo naturalmente rapportando il post di martedì 6 - quello sulla mancanza di talento - con quello di sabato 3 -quello con la dimostrazione del talento.
mona! (se mi permette, e in grande amicizia.

scherzi a parte, veramente un bell'imbuto di intuizioni. rapido, ficcante, saporito.

fatacarabina ha detto...

vix sono venuta a trovarla nel suo blog...

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