Fatacarabina

Fatacarabina

mercoledì 31 dicembre 2008

Ma tu cosa sai...

Mi chiedi se va bene, certo che va bene. No, non va tutto bene. Certo respiro, muovo gli arti superiori ed inferiori senza difficoltà. Un infarto non mi ha ancora steso, ma non per questo tutto deve esser perfetto. Tutto deve andare bene per forza? No, non è così. E soprattutto mio caro, non va bene perché tu non hai voglia di preoccuparti, di interrogarti. Su di me. A volte preferirei, caro mio, che non mi chiedessi niente. Tanto non è difficile intuire che è quel che vuoi sentirti dire. Tutto bene, tutto facile. Certo mica è successo niente. Non ho problemi di salute, non sono in difficoltà economiche gravi, un tetto sotto cui vivere ce lo abbiamo, e pure la macchina e il computer. Viviamo sereni, per ora. Ma tu il tuo tutto bene dovresti abbandonarlo nel cassonetto giù in strada quando sali le scale, sempre più tardi la sera, entri in casa, vai in bagno e poi vieni a letto. Senza un sorriso, senza un reale interesse. Non mi vedi, e allora come fai a chiederti se sto bene, se non ci sono? Non ho voglia di polemiche, è tardi, meglio girarsi dall'altra parte e dormire. O almeno far finta mentre il mio stomaco monta come un caffè che esce dalla caffettiera. Non è affatto consolante, questo gorgoglio scuro dentro di me. Il mio corpo esiste e pure il mio cervello, ma senza un tuo sguardo, di fatto mica esisto. Non ci sono qui, in questo letto, che è freddo e silenzioso e non diverte e non rasserena, neanche se ci provi a pensarlo ed auto-importelo, che è una gioia. Non si parla, non ci si guarda, non ci si sente, non ci si vede. Ho pensato fosse utile non fartelo pesare, che stavi male, che non ti sentivi realizzato. Ho pensato di star immobile ad attendere. Ma proprio questa immobilità mi ha reso prigioniera della tua incapacità di vedere, di non sentire che qui accanto in questo letto-galera, non c'è uno scaldino che accendi quando ti serve, ma una persona che ti cerca, ti desidera, che ha bisogno di te. Nello scontro tra bisogno e non bisogno, perde il primo. Tra l'immobile e il mobile, vince chi sta fermo, in amore chi fugge. Vinci tu, che non ci sei. Perdo io che non ci sono.

martedì 30 dicembre 2008

Generazione


Vorrà pur dir qualcosa. Avrà un senso, questo ritrovarmi dentro ad un clima di generazione, in un momento in cui tutto sembra fermo, paralizzato dalla crisi, quella che svuota i portafogli e ci priva di contenuti, non solo come esseri consumanti ma soprattutto come persone che hanno ideali, aspirazioni, desideri.
Mi sono accorta stasera che attorno a me, ad oramai meno di 24 ore dallo scoccare di un nuovo anno, c'è un mondo che genera. Quattro amiche aspettano un figlio. Una partorirà tra un mese, la seconda lo ha scoperto dopo quattro giorni di festa collettiva a Praga, quasi a sorpresa. La terza, che vive lontano, nella mia amata Buenos Aires, ha atteso per comunicarmelo stasera, felice, via telefono. Lo dice, solo ora, che è sicura che tutto va bene. Perché realizza un sogno a lungo ricercato. La quarta, trapiantata pure lei lontano da me, in Calabria, me lo detto ieri sera. Con il volto radioso, sarà mamma per la seconda volta ad agosto.
Generare, produrre un tuo simile, dargli naturalmente l'essere. Creare dal tuo corpo una vita. Una enorme responsabilità, una enorme gioia che di per sé realizza.
Quale simbolo migliore in vista di un nuovo anno da vivere, in cui combattere per essere sempre come vuoi, senza piegarti ai desideri altrui di cambiarti, della potenza generatrice di una donna che aspetta un figlio.
Quattro amiche, quattro pancioni pieni di orgoglio, quattro vite che combatteranno, domani, come noi oggi, per non piegarsi ai desideri altrui per inseguire i propri. Quattro teste che penseranno a modo loro, occhi che guizzeranno curiosi, mani che stringeranno il mondo.
Ecco un motivo, vero, per esser certi che il prossimo anno sarà bellissimo.

lunedì 29 dicembre 2008

In-catena



Un grazie ed un abbraccio
a maurogasparini
(www.maurogasparini.it)
per la segnalazione (immeritata )
per il PREMIO DARDOS

che premia i blog
“che hanno dimostrato il loro impegno nel trasmettere 
valori culturali, etici, letterari o personali”.
Il regolamento di questo premio prevede di:

1) Accettare e comunicare il relativo regolamento visualizzando il logo del premio
2) Linkare il blog che ti ha premiato
3) Premiare altri 15 blog ed avvisarli del premio

E allora, visto che le catene di questo tipo è giusto non spezzarle per lasciar proseguire
l'effetto della grande onda, ecco le mie segnalazioni

ovvero i blog e i siti di amici che seguo con attenzione
con affetto e amicizia da anni.

Gli esclusi possono prendermi a calci nel sedere per ripicca, sempre che riescano ad inseguire una fata in fuga


guido catalano www.guidocatalano.it
maurogasparini www.maurogasparini.it
artoong www.artoong.net
ibridamenti http://www.ibridamenti.com/
eiochemipensavo http://eiochemipensavo.diludovico.it
simone biagiotti http://365albe.blogspot.com/
le sorelle http://www.sorelleditalia.net/
mare profondo http://mareprofondo.splinder.com/
gallizio http://controsvettole.tumblr.com/
monique pistolato http://www.moniquepistolato.it/
roberto lamantea www.amosedizioni.it
massimiliano nuzzolo http://www.myspace.com/massimilianonuzzolo
la vipera http://www.ilmorsodellavipera.net/

e per la sezione diari personali
le amiche
niki htt://altrodiario.wordpress.com
simple http://sancla.wordpress.com

Desiderare è aver fame

Io sono serena
ma dentro
ho questa maledetta fame
che non mi molla.
E' una fame
che parte dal mio fondo,
che non si tampona
con un tozzo di pane.
Non è che
le lanci la pagnotta
e lei sta buona.
No, lei non si accontenta.
Lo snobba il cibo.
Io resto serena
perché so
di cosa ha bisogno.
Se battagliassi, vincerebbe lei.
Se la incatenassi, perderei.
Se la lascio ringhiarmi contro
e la fisso diritta negli occhi
e desidero, come lei che ha fame,
alla fine vinco io.
Lei come me che sono lei.

Non salgo sulla bilancia

Come sempre, a fine anno è tempo di bilanci. Cosa è andato bene? Cosa male? Metti un anno di vita sulla bilancia e pesi. E sulla base dei più e dei meno, del fatto e non fatto, dell'ottenuto e del negato, cerchi di capire se sei andato avanti, se sei rimasto fermo, o se sei peggiorato.
Rifuggo dalla bilancia. Non peso così la mia vita, so troppo bene che quel che oggi può sembrarmi un segno meno, domani potrebbe trasformarsi in una moltiplicazione o una sottrazione continua.

Sono in movimento, questo mi soddisfa.
Scrivo, questo è un bisogno.
Sono capace di volere bene a gratis, e questo è fondamentale.
Sto bene con il mio vento e questo mi rasserena.
So bene che per taluni sono un rebus ma questo non mi inquieta.
Spiegare troppo non è più una necessità e questo è consolante.
Desidero fortemente e questo mi tiene in vita.

domenica 28 dicembre 2008

Buonanotte

Un torrente di emozioni non tranquillizza, non è mica un placido fiume navigabile.

Pola (para) roid

Io tra le braccia di papà, dietro di me Lea.
Il furetto nichilista e il Drugo, sul tappeto.
Sigaretta tra le labbra, fumo che esce.
Io a due anni, sigaretta in bocca, per giocare. Spenta.
Un ombelico, era musicale.
Le mani tra i capelli.
Io a San Luca, margherite tra i capelli.
Schiaffo, mani grandi.
La katana della sposa, schizzi di sangue.
Porta chiusa. Non c'è sangue.
Io a Buenos Aires, sorrisi.
Il mio occhio al trucco. Liquido.
Sin city, pioggia grigia.
Il mappamondo di Mafalda.
Me allo specchio, occhiolino.
Una mezza pinta di Guinness.
Tanti capelli, arruffati.
Una bocca, voglia.
Mani che dipingono una schiena.
Non è la mia.
Pelle, tanta pelle.
E' la mia.

sabato 27 dicembre 2008

Emoticon, salvami tu...

Faccio pulizia nella mail, cancello vecchie chat e mi rendo conto di quanto poco si possa esser umoristi in un dialogo spesso solo chattato, il rischio è che se dici una cosa per provocare o solo per ridere o ci metti subito una sfilza di emoticon con la rassicurante faccina sorridente o mica si capisce che scherzavi.
E se non lo fai, pare che hai recriminato su tutto, su questo e su quello, e invece stavi solo giocando…o provocando, perché magari provocare ti piace o sei portata allo strappare un sorriso al prossimo, come secondo comandamento dopo il "non uccidere". E scopri che se poi i tuoi interlocutori mica ti capiscono e magari ti tiran una testata, virtuale o reale che sia, manco torto c’hanno, perché magari qualcosa anche tu non l'hai capito bene.
In una chat se vuoi buttar in vacca un discorso serio e ci giochi, se non ci ficchi ottanta emoticon con la faccia monatta dal sorriso perenne di seguito, finisce che non ti fai capire bene.
E allora sarebbe giusto spegnere il computer, prendere il telefono e parlarsi direttamente o andar al bar a prendere un caffè. Così dal tono della voce o dalle smorfie della faccia ( ben più divertenti di una pallina con due occhietti scemi) lo capisci se uno scherza o meno, se ti provoca e gioca e invece non ti sta facendo il culo come una capanna perché non gli va bene come sei, quel che dici e come lo fai...e non ci resti male e magari sorridi, ed una amicizia non la trasformi in un casino di incompresi ma in un tripudio di condivisione. E ridi... e invece così lo lasci fare all'emoticon, quel ruolo. Non lo fai tu, lo fa lui per te.
E magari tu sorridi meglio perché hai pure gli occhi birichini e le boccacce ti riescon alla grande e la smorfia da sfigato è da premio Oscar.
E dall'altra parte del computer , purtroppo, spesso, manco se ne accorgono.

(piccola riflessione nata su Friendfeed)

Io rompo, tu rompi...

Pare sia una prerogativa femminile, più che maschile, ma il rompere richiede doti importanti, fatte di tenacia, tecnica e grande pazienza che forse davvero non è un esercizio per esseri basici.
Perché il rompere è lento ma costante, come la goccia che batte sulla pietra. Io a quello stadio ancora non ci sono arrivata ma mi sto allenando per ottenere il giusto risultato, forte di esempi femminili in famiglia che hanno vinto per decenni il contest nazionale di spacca-maroni. In realtà a frenare la mia naturale predisposizione alla rottura, è proprio l'esempio familiare di cui ho subito gli scassamenti da decenni, assieme al resto dei componenti del nucleo, cane e canarini compresi.
Per questo alla tecnica del costante ma lento scassamento, ho preferito quella del genere "tasmanian", con la produzione di tornado devastanti che non durano più di quindici minuti ma che lasciano solo detriti al loro passaggio.
La quiete successiva, anche se in un deserto di rottami vari, corporei e non, almeno lascia il tempo ai malcapitati di pensare che in fondo cattiva mica sono, come è vero. Sono solo una irruenta.
"Te verso come na canocia cussì vardo se ti ga un serveo", è la frase che dovrebbe metter in guardia qualsiasi malcapitato o malcapitatata che inciampa nella furia del tornado genere "tasmanian". Io lo dico in veneziano, voi fate come vi pare che i dialetti son tutti belli.
Le parole, quelle a cui tengo di solito così tanto, volano a caso producendo una rotazione concentrica che arriva a superare i 130 chilometri orari. In un caso siamo arrivati ai 200, cronometrati dalla vittima di turno in un misto di orrore ed ammirazione. Aveva osato dire che ero una donna incomprensibile, sbadata e avevo sbagliato un tempo verbale.
Se ci sono a tiro piatti ed altri oggetti di uso quotidiano, la roteazione può provocare spiacevoli oscillazioni e spostamenti nell'aria dei suddetti. E' successo, ma non è stata colpa mia. E' un pochino come le cavallette.
Non ho mai fatto ricorso all'uso delle mani, sono contraria alla violenza se non per difendere la mia vita da attacchi estranei. E quindi il tornado fa da sé, con i suoi cerchi pieni delle mie parole che finiscono a mescolarsi a caso, tramortendo tutto. La calma successiva mi porta al silenzio, ma non è una resa. E spesso l'interlocutore di turno sbaglia pensando che sia quello il momento giusto per contrattaccare. No, la rottura può proseguire con metodi e modi diversi che comprendono un lentissimo, estenuante, confronto su ogni virgola e punto messo nel discorso del contendente, che magari non ha capito quel che volevo dire e se ne è risentito. Oppure una mia improvvisa e lunga sparizione dalla scena della contesa, ma in realtà sono a pochi passi ad affilar l'ugola. Oppure uno scontro di sguardi e frecciatine che può durare per ore. I metodi sono tanti, alla fine, ognuno affina al meglio la propria tecnica. Io mi ci sono scoperta portata alla rottura quasi per caso, e all'inizio la rivelazione, come tutti i super poteri, mi ha pure choccato. Poi ho scoperto che sono tantissimi ad avere questo potere, ognuno con la propria specialità. Si dovrebbe organizzare davvero quel contest nazionale di scassa-maroni. Ne vedremmo delle belle. Cronometrare i secondi in cui si propaga l'incazzatura, organizzare prove di lancio di piatti, misurare la velocità prodotta dai singoli tornado, valutare l'intensità in termini di decibel di un urlo ben assestato. E ancora premiare con un punteggio la produzione di parole e improperi, con un bonus per quello più originale. Gran finale , la maratona della goccia sulla pietra. Estenuante ma eterna. Come la vita. Come le rotture...

venerdì 26 dicembre 2008

il valore del no

Si fa vivo a Natale, per gli auguri. Una telefonata che inizia con una recriminazione: sono mesi che non ti fai più sentire. E io penso, certo che sono passati mesi. Beh volevo invitarti a bere un caffè, dice lui, ma sei sempre impegnata. Un caffè, o quello che vuoi tu, mi dice. E' Natale, sono uscita indenne dal pranzo in famiglia, stavolta senza contestazioni e polemiche. Insomma, non ho voglia di tirar fuori le unghie e colpire. Ringrazio, spiego che sono una donna piena di impegni e di lavoro ( che è tutto vero), che ho pensato a farmi la mia di vita, senza pensar alla sua ( che è vero il triplo) . Ci vedremo, se ci sarà occasione e tempo, per un caffè, rispondo. Mette giù, non prima di aver calcato la mano, ricordandomi che possiamo fare, assieme, tutto quello che vogliamo. Il messaggio è chiaro. Prendi il telefono, chiamami _ è il senso _ e vieni da me. Per far che? E' ovvio, l'unica cosa che si poteva far bene assieme.
La proposta suona come l'invito ad andare al supermercato delle cose facili, prendi e ti diverti un pochino.
Anche se ti accorgi subito che stai comperando un giocattolo già rotto.
Ma le parole hanno un peso sostanziale nella mia vita. E so perfettamente, oggi, che quel che può sembrare facile per qualcuno, per me non lo è. Non cerco la via facile alla felicità, ma quella serena e entusiasta, fatta di gesti e parole che hanno un peso specifico alto. Qualità, sincerità, rispetto, stima.
Il vento mi scorre dentro da mesi, mi invita a vivere la vita con gioia ed entusiasmo. E se sbatto contro un muro, almeno lo faccio con il coraggio di chi ci ha provato. Senza falsità.
Insomma non mi servono surrogati.
E se ho voglia di sesso, non vedo questo desiderio come una semplice ginnastica anti-stress. Per quella mi basto da sola.
Il risultato sta alla fine tutto in due lettere, spedite via sms.

NO.

giovedì 25 dicembre 2008

Guri!




Auguri a ...
chi mi conosce benissimo, a chi comincia a farlo e a chi non ci riuscirà mai.
Auguri agli uomini che ho amato e a quelli che mi hanno detto no.
Auguri agli uomini che non ho voluto e a quelli che ho solo sognato.
Auguri a chi mi ha generato ( e qui ci sta anche un grazie)
e a chi mi trova ancora oggi inadeguata ( e qui il grazie lo tolgo subito).
Auguri alle amiche sincere e vere, quelle che ti dicono in faccia cosa pensano.
Auguri agli amici che sano veder oltre.
Auguri a chi ama leggere e a chi vive di passioni.
Auguri a chi ama scrivere e sulla carta cerca di trovare un senso.
Auguri a chi è in strada e si sente solo
Auguri a chi è in casa, c'è troppa gente, e si sente solo lo stesso.
Auguri alle donne violate, derise, umiliate, maltrattate.
Auguri ai bambini, tutti, nessuno escluso.
Auguri a chi si sente un guru, pieno di potere, e
a chi si sente una particella di sodio, inascoltata.

Auguri e qui potete continuare voi...

Buon Natale, baciatevi se potete

Ne ricevi tanti in questi giorni, più o meno sinceri, più o meno coinvolgenti.
E' la febbre del Natale, che ti fa dare una infinità di baci e regalar sorrisi.
Va bene così.
Ma per fortuna, non tutti i baci sono uguali.
Ci sono baci che sono fondamentali.
Baci ben dati, morbidi e rasserenanti.
Portatori sani di felicità.
Un bacio in apnea, lungo come una giornata, al sapore di gioia e desiderio, mica lo porta Babbo Natale.
Non lo trovi sotto l'albero, in mezzo ai pacchetti regalo.
Non lo trovi neanche all'ipermercato, in offerta 3x2
Le sue tracce le trovi, semmai, inciampandoci sopra
o nei gesti di chi te lo offre e te manco te lo immaginavi.
Lo trovi dentro le pagine di un libro
sulla faccia felice di un uomo innamorato
negli occhi di una donna che scopre di aver generato una vita.
Lo puoi annusare tra le lenzuola di un letto sfatto di due amanti.
Tra i capelli di una ragazzina che non sa neanche dire, oggi, cosa è l'amore.
Lo trovi tra le mani di un uomo che ha appena lasciato il suo desiderio
tra i seni di una donna che non rivedrà, ma che ha voluto perfino con le ossa.
O nello sguardo radioso di un bambino che gioca con il regalo tanto atteso.
O ancora tra le gambe di una donna che non sa più come chiederli e dorme sola.
Sono dentro di noi, ogni giorno, i baci fondamentali.
Ma ci vuol coraggio per farli emergere
dal fondo dello stomaco e lasciarli andare
dove è giusto che vadano.
Hanno la potenza di una fusione nucleare
solo che la direzione la scegliamo noi.
Fondono vite, storie, aspirazioni diverse in un gesto che genera
Un giorno può essere la somma di 24 ore
o un grandioso investimento, senza rischio di tracolli, in gioia, desiderio, serenità e amore.
Lo sa anche Babbo Natale, che di baci così ne vorrebbe pure lui,
e invece in queste ore lavora a cottimo per una multinazionale.

mercoledì 24 dicembre 2008

Disintossicazione mentale

Approfitto di questa pausa natalizia per liberare il cervello da scorie di stress, errori che pesano come macigni, vivisezionare emozioni difficili da gestire. E soprattutto respirare. Ho bisogno di concretezza, di parole semplici.
E quindi spengo internet, lascio decantare questo blog, faccio ciao ciao con la manina al social network. Agli amici e alle amiche, un bacio con lo schiocco.
Chiudo la casa virtuale e vado a farmi un giro.

Auguro a tutti di trascorrere le festività con chi amate davvero, senza finti auguri e false soddisfazioni, ma con vera felicità.
Ci si rilegge qui, prossimamente.

martedì 23 dicembre 2008

Non è colpa mia

Ci provo, cerco di star attenta. Di non ricadere nell'errorino. Alla fine, ci ricasco sempre.
Sono della famiglia dei distratti, di quelli che per inseguir il piacere di un pensiero, lieve o pesante che sia, finiscono con lo scordar il dovere delle quotidiane incombenze. Sono così distratta a volte che saluto gente che non conosco e non bado ad amici da una vita che urlano a squarciagola per richiamar la mia attenzione. Sono così distratta che un giorno sono andata in ufficio con il pigiamino fucsia sotto il cappotto, e poi sono scappata a casa con la faccia dello stesso colore, quando mi sono accorta degli sguardi allucinati dei colleghi. Sono così distratta, che non mi accorgo se una auto tampona la mia al semaforo e me ne vado bellamente al verde senza rendermi conto di nulla. Sono distratta al punto che un giorno non ho manco riconosciuto mia madre, e lei è rimasta choccata e non mi ha parlato per un mese. Sono stata distratta anche quando scherzando con un amico poliziotto sulla sua nuova Beretta, l'ho presa in mano e gliela ho puntata alla fronte...Vabbé ma mica sapevo, io, che la sicura non c'era. Da allora mi evita...ma sono altre storie. Durante una visita a palazzo Ducale, mentre sognavo di esser una principessa in mezzo ai cavalieri in armatura, mi sono stampata su una vetrata che non avevo visto, ovviamente. Il frastuono è arrivato fino all'aeroporto di Tessera.
Camminar sul ghiaccio e pensare contemporaneamente, sono attività lesive per le mie giunture inferiori. In aereo mi distraggo al punto tale che dormo bellamente prima del decollo ed utilizzo la spalla del malcapitato vicino di posto come cuscino e se ci scappa la bavetta, come i neonati, non so che farci...
Se mi siedo in un locale, e la conversazione di chi mi è vicino non mi tiene ben attenta, posso girarmi involontariamente ad ascoltare i discorsi dei commensali al tavolo a fianco. Una volta, la conversazione era così interessante e struggente che mi sono seduta con loro, una coppia che si stava lasciando, e ci ho fatto pure la lacrimuccia. Mi hanno allontanata a malomodo, dandomi della ficcanaso. Avevano ragione ... ma ero presa dal dialogo, incessante e intelligente.
Mi distraggono i raggi di sole, i fiori e le piante in genere specie se del tipo succulente, gli odori di una cucina in cui si sta preparando una cena, gli uomini in camminata libera, i libri posati su un tavolo e pure una bottiglia di vino stappata...Mi distraggono soprattutto le parole, anche quelle sussurrate salendo le scale mobili di un centro commerciale e i movimenti di una mano che va ad accarezzare i capelli. Ecco, mi distraggono i capelli. Annuso quelli di amiche e amici, non lo faccio apposta, ma sembro un cane da tartufi. E se sto pensando a qualcosa di succulento mentre sono alla mia scrivania, in ufficio, intenta a scrivere, finisco con il palparmi involontariamente il seno sinistro. Insomma ho il cervello veloce, mi vien da dire per scusarmi. Che poi , a dirla tutta, cosa c'è da scusarsi, se hai la testa piena di pensieri, che volano lontani o vicini, e sono solo tuoi e ti tengon in vita.
Come le parole ben dette, che quando le senti pronunciare, diventi parte del racconto.
Scusate, cosa stavamo dicendo?

domenica 21 dicembre 2008

Soddisfazioni personali

Girovagando nei siti amici sono finita sul blog del mio amico Sba . Lo leggo spesso ma non avevo mica fatto caso al link al mio di blog e soprattutto alla motivazione:

La compagna ideale per una sbronza triste, ma anche di una sbronza allegra, insomma se la sgnapa la porta lei… ti xe ciavà.


Eh, signori e signore, sono soddisfazioni!
Hic

Volevo un libro

Stamani mi sono svegliata sentendomi un organismo monocellulare, solitario, in una casa in cui oggi il silenzio era pesante. Ho acceso la radio, su gtalk non c'erano i soliti saluti mattutini con gli amici. Mi sono concessa il primo caffè dopo una settimana in cui ho carburato solo grazie al thè, mi sono infilata la gonna che non mettevo da mesi e sono uscita a godermi il sole. Meta la libreria, ma non sono riuscita a comperare nulla perché c'era una coda infinita di gente, dalle signore impellicciate ai pensionati, in fila annoiata per pagare libri e cd. La crisi, quella che al governo fingono di non vedere ma che esiste davvero, spinge tanti a regalare libri questo Natale. Io i libri li ho sempre comperati e letti e non potrei vivere senza. Li regalo tutto l'anno, mica solo a Natale e non sono affatto un presente qualunque per me ma un regalo importante, un dono prezioso quanto un gioiello. Mi sono ricordata, mentre guardavo la coda di acquirenti in coda e mi chiedevo quanti in realtà erano lettori e non semplici consumatori all'ultima spiaggia, di una intervista sentita ieri sera per radio. Parlava Max Gazzè, un cantante che stimo, e lui diceva che un libro scritto o letto è una opera d'arte. E che lui i regali li faceva quando si sentiva, mica alle feste comandate. Ho rinviato l'appuntamento in libreria a malincuore e sono andata a passeggiare in strada, con una malinconia che mi saliva dal fondo dello stomaco su fino al cervello, innervosendomi. Ho girato per le bancarelle che vendono quintali di sciarpe, guanti, salami, finti vetri di Murano, spesso con il marchietto made in China, ben nascosto. Cercavo dei regali per i miei amici più cari. Alla fine non ho trovato niente che andasse bene. Ci voleva un libro per trasferire affetto, regalare emozione, consegnare un diverso punto di vista che accresce. Ci voleva un regalo così prezioso per trasferire l'amicizia e anche l'amore che provo per quelle persone che condividono con me un pezzo delle loro vite, mi sopportano, tentano di interpretare il mio cervello non sempre lineare. Oppure un oggetto che non fosse il falso del falso, ma frutto del lavoro di un artigiano, di un ragazzo di un centro per disabili, di un lavoratore del Sud del mondo. Non so se capite, ma ho cercato una traccia di genuinità che non ho trovato e questo ha acuito il mio stato malinconico. Perché mi accorgo di aver bisogno di genuinità e autenticità in tutto, in primis nei rapporti umani, prima che nei regali di Natale. E mi accorgo di non esser più capace di spacciar auguri a quanti non riesco a sopportare, perché rappresentano ideali lontanissimi dai miei.
Sono finita in una serra, a comperare l'ennesima pianta anti-malinconia, con cui condividere il mio piccolo appartamento, che in fondo è la mia cuccia. L' ho messa in auto e l'ho protetta allacciando attorno al vaso la cintura di sicurezza, come fosse una bambina piccola. Non chiedetemi perché lo faccio, è così e basta. La malinconia è rimasta. Volevo un libro e non l'ho comperato, volevo far dei regali e non ho trovato qualcosa che mi esaltasse. Sono finita a svuotare il vaso malinconico in questo post. Non mi interessa se chi lo leggerà, lo troverà inutile alla sua vita. Oltre a leggere, la cosa che amo di più fare è raccontare storie e mica sempre risultano esaltanti e sconvolgenti i racconti che ti escono da dentro. Stavolta è un frammento della mia, di storia.
E sono finita sul divano a leggere il libro della settimana, in attesa che l'orologio scandisca il tempo di andar in ufficio a lavorare.
Raymond Carver in "Niente trucchi da quattro soldi " scrive:
Penso che la letteratura possa renderci consapevoli di certi nostri difetti, di certi aspetti della nostra vita che ci mortificano e che ci hanno mortificato in passato, che possa farci capire cosa ci vuole per essere davvero umani, per essere qualcosa di più di quello che in effetti siamo, qualcosa di meglio. Penso che la letteratura possa farci capire che non stiamo vivendo la nostra vita nella maniera più piena. Ma se la letteratura possa davvero cambiarci la vita, questo non lo so. Sarebbe bello che fosse così. In effetti, può darsi che un racconto o un romanzo sia in grado di cambiarci la vita, di cambiare la nostra vita emotiva, mentre lo leggiamo. Forse se lo facciamo abbastanza spesso alla fine avverrà un processo di osmosi che ci aiuterà ad affrontare quello che ci aspetta.

E per me c'ha ragione.

sabato 20 dicembre 2008

Letterina

Caro Babbo Natale, quest'anno non ti chiedo niente.
Quello che mi serve ce l'ho, mi manca solo una cosa.
Bella, avvolgente, totalizzante, inebriante e intelligente.
E mi sa che quella tu non me la puoi dare.
Ci dovrò pensar da sola.
Che è il modo migliore di farsi un regalo.
Grazie e ciao

venerdì 19 dicembre 2008

Supereroi

Quando l'ho vista, la madre Superiora, mi era sembrata un enorme catafalco nero, che mi ricordava quel telefilm in replica che in tv mamma non mi lasciava guardare, Belfagor, perché faceva troppa paura. Tutta nera con quella faccia bianca senza sorrisi , mi sovrastava con un cipiglio duro, che non aveva nulla a che fare con i sorrisi che avevo lasciato a casa. Per un attimo pensai che mi avrebbe incenerito. Mi sedetti al banco e presi le matite colorate con la mano sinistra. Lei si fece il segno della croce, un gesto scaramantico anti-mancini che io capii solo dopo, alle elementari. La compagna dietro di me, mi tirò i capelli e mi disse lievemente: "Dopo ti picchiamo Silvia, sei la bambina antipatica con i capelli rossi che mi ha fatto cadere alle giostre". Io ero allibita: non mi chiamavo Silvia ed all'epoca ero quasi bionda tedesca, comunque di certo non rossa di capelli. Le prime due ore passarono veloci, io che mi tenevo lontana dalle bimbe che volevamo picchiarmi e la Superiora che ogni due minuti veniva a spostarmi la matita colorata dalla sinistra alla destra e io che resistevo, tornando ad usar la mano preferita e lei che accompagnava l'inutile tentativo con un segno della croce sconsolato. A pranzo uscii in giardino con gli altri. Rimediai uno scoppellotto e quattro calci dalle compagne tanto solerti nel punirmi per colpe non mie ed una serie di strattoni grandiosi della Superiora quando mi ritrovò attaccata alla fontana, intenta a divorare a strappi il fazzoletto di cotone bianco, urlando che volevo la mamma . Piangevo con una produzione di lacrime otto volte superiore allo zampillo della fontanella dell'asilo. Caddi stremata in refettorio al momento del pranzo, quando dopo la pasta al burro, arrivò la terrificante mela cotta. L'odore ancora oggi mi fa accapponare la pelle. Non feci il segno della croce, per non lasciar il fazzoletto sbranato e rimediai un altro ceffone dalla Superiora. Che poi , stanca anche solo di vedermi in lontananza frignare come un cagnolino abbandonato, mandò la bidella a chiamar mia madre. "Se la porti a casa, per favore", fu l'invito della suorona quando lei arrivò, tutta trafelata. Quel giorno , l'unico passato in un asilo, io ho amato la mia mamma, come si amano solo i supereroi dei cartoni animati.

lunedì 15 dicembre 2008

Mi chiami come vuole...

Ho ancora addosso questo stupido vestito rosso, il vomito ha sporcato la pelliccia bianca e i polsini non sono più immacolati, ma macchiati di fango. Cosa volete da me? Che vi fornisca le mie generalità? Mi chiami Gianni che va bene lo stesso. Cosa ci facevo nel vicolo? Vomitavo, ho bevuto troppo stasera. Veramente bevo troppo da mesi, da quando è arrivata la riconferma del contratto. Me ne stavo tanto bene a casa mia, con mia moglie e i miei animali, nel freddo del mio paese. Invece questo schifoso contratto di lavoro mi costringe ad andar via tutti gli anni e passar settimane nel vostro mondo caotico, inquinato, iper-tecnologico. Partire è un po’ morire e io, ogni anno che passa, mi avvicino alla mia fine. A pensarci sto male e bevo per anestetizzarmi dal fastidio di dover partire, di dover venire ad allietare le vostre ipocrite vite. Bevo per non pensare che sto morendo. Bevo per crepare prima. Perché ho picchiato quel barbone? Mi ha preso in giro. Diceva che ero un pallone gonfiato. E ho colpito duro quella faccia da clown ridente, finché l'alcol che avevo nello stomaco non mi ha costretto a fermarmi a vomitare. Finché non ha smesso di sorridere così.
Ma me lo dite cosa volete ancora da me? Non credete nella mia professionalità, per voi non valgo niente, salvo poi chiamarmi tutti gli anni a far il buffone alla vostra corte. E io che dovrei fare, obbedire? E’ vero, c’è un contratto, e mi pagate pure così il resto dell’anno me ne posso star a casa mia. Ma io non ce la faccio, mi chiedete cose, pretendete che vi sorrida, che sia amabile e buono. Ed ogni anno che passa, il sorriso diventa finto. Mi sento vuoto, sfiancato. Volete che vi ricordi quel che voi non siete più. E così berrò, fino a farmi scoppiare il fegato, che è quel che voglio. Il brutto è che con tutto sto rosso che ho addosso, se il fegato mi si spappola davvero e comincio a sanguinar dalla bocca, il sangue sul rosso del vestito manco si nota. Insomma, per voi sarebbe lo stesso. A meno che non si sporchi anche la candida pelliccia che mi passa attorno, lungo i bordi del vestito, e che ora è macchiata di vomito scuro. Ho fatto le prove generali. Vi fa schifo, vero? Non sono presentabile così? Ma che posso farci... se la pelliccia candida si macchia del mio sangue, non rosso, ma nero, a grumi con tracce bluastre, allora sì che sarà un bel vedere. Il mio sangue è nero, coagulato dal mio schifo personale. Sia chiaro, commissario, se crepo io non cambia niente. Ma almeno sarà un bel morire. Le telecamere verranno a filmare il mio cadavere, il volto bianco e ossuto, la pancia gonfia da mesi di super-alcolici, mica dal grasso pacioso della serena abbondanza, la pelliccia devastata dai grumi neri del sangue vomitato dalla mia bocca, fino ad asfissiarmi. Lo sguardo atterrito, dallo spasimo finale del dolore. Si immagina, commissario? Che servizi, con i commentatori in orgasmo dialettico, gli psicologi a porsi domande, le aziende a listar a lutto gli alberi di Natale. Durerà il tempo di due giorni, massimo tre. Sono pur sempre uno famoso, una faccia nota. Poi mi lascerete in pace. Passate undici mesi a burlarvi di me, dicendo che pensar che io esista è roba da bambini, da creduloni. Ma io esisto solo per far sorridere i vostri figli e voi l’avete dimenticato. Così come avete dimenticato di insegnare ai vostri figli il piacere di regalarsi un sorriso. Questi bambini oggi mi tirano la barba, mi tirano calci allo stomaco per veder se sono finto, mi guardano come se fossi un fenomeno da baraccone. Non mi chiedono giocattoli ma cose da grandi, che costano. E non mi sorridono più. Io che ogni anno arrivavo con i miei sacchi ho dovuto cambiar distributore, cercar la merce alla moda, la stessa ovunque. Voi la chiamate globalizzazione, io la definisco una stronzata da terzo millennio. Roba da grandi messa in mano ai bambini. Cellulari, computer, roba che costa tanto e che si rompe in fretta. E vestiti da donne per le bambine. E Iphone da 500 euro per i maschietti. Tutto è peggiorato quando i giocattoli mi sono stati cancellati all’ultimo rinnovo del contratto. Nessuno ha pensato manco di recuperarli per darli a quei piccoli che nel mondo se la passano peggio dei vostri figli, senza cibo, senza scarpe, senza genitori. Loro sanno sorridere ancora davanti ad un pallone o una bambola di pezza. Il datore di lavoro, invece, li ha mandati tutti al termovalorizzatore, considerandoli fuori moda, inutili balocchi del passato. Li ho visti bruciare, e con loro ho visto morire centinaia di sorrisi. E per evitare di gettarmi nel fuoco a recuperarli, ho preso una bottiglia di whisky e ho mandato giù lunghissimi sorsi. Per anestetizzarmi. E ho camminato per ore, bevendo e basta, fino a quel vicolo. Per spegner la rabbia, il fastidio, lo schifo. Meglio annullarmi in un litro di whisky che cedere, pensare che quel che faccio va ancora bene, che è giusto. Volevo lasciare da tempo ma la mia campagna ghiacciata non mi permette di mantenere me e i miei animali. E così sconfiggerò il ricatto, lavorando, ma morendo, lentamente. Tanto dentro sono già un encefalo quasi piatto, che risponde oramai solo agli stimoli e ai doveri essenziali. Bere, pisciare, camminare, distribuire, pisciare, bere, andare a cacare, bere, pisciare, vomitare, bere, consegnare, sorridere, defecare, vomitare e bere. Ok, commissario, a lei non interessa nulla di quel che le sto raccontando. Vuole solo le mie generalità per poi spedirmi in cella stanotte. L'accusa? Lesioni. Puzzo di vomito, è vero. Non ho addosso un bell’odore, lo ammetto. Ma anche quello stronzo, non puzzava meno di me. Sì, ok, ho cominciato prima io.
Mi chiami come vuole, le ripeto. Sì, assomiglio a Babbo Natale. Ma lei ci crede? No. Ecco, appunto, lasciamo stare. Mi chiami pure Gianni.

L'insonnia praghese

Era da tempo che non sognavo così tanto. Quattro giorni via di casa, a camminare tutto il giorno a zonzo per Praga e poi arrivi a sera e crolli sul lettone. Sei stanchissima, metti la testa sul cuscino e dormi subito. Un sonno profondo che non penseresti ammetta neanche un minimo spazio per i sogni e invece quelli arrivano, e ti ritrovi a passare notti insonni a Praga a parlare , a raccontarti tutta la notte. Notti insonni in cui non si guarda mai l'orologio ma solo si studiano le rughe e i percorsi di un viso; in cui non ti fai neanche prendere dalla fretta tanto sai che non ti bastano 24 ore per raccontare una vita e ascoltare il racconto della vita altrui. E allora tanto vale spaccarlo l'orologio e lasciare che il racconto continui. Notti in cui l'aria odora d'assenzio bollente e di libri letti e riletti e il mondo lo puoi allontanare in fretta, nascondendoti sotto una coperta con una piccola lampada ad illuminare l'improvvisato rifugio, che è solo tuo e di chi vuoi tu. Oppure notti dove metti il giaccone sopra il pigiama e hai solo voglia di camminare nella penombra, sopra i freddi massi di pietra. Il naso all'insù a cercar le statue mostruose e un braccio che ti scalda mentre tu sei alle prese con i brividi del tuo personale mistero.

lunedì 8 dicembre 2008

Il letto di Paola

Ti lascio andar via, ma vorrei aver il fiato sufficiente per dirti di restare. Invece il fiato mica arriva in gola a formar le parole e allora ti saluto con un sorriso, il migliore che possa regalarti. Così quando sarai lontano e ripenserai a stanotte, non avrai dolori e tensioni, se non quelle del desiderio che non fa rima con dispiacere. Tu chiudi la porta e io resto sola, in questo letto. Le lenzuola, i cuscini, il copri-piumone sono impregnati del nostro odore, che si è mescolato in una fragranza forte, di terra e fiori. Mi sa che l’hai sentita pure tu, fortissima, quella fragranza. I tuoi capelli, le mani, il petto, la bocca sono ancora impregnati del nostro odore. Certamente lo stai sentendo anche tu, come me, in questo momento.
Nel letto resta a farmi compagnia il tuo calore, che si è concentrato come una sagoma termica nello spazio dove prima stavi tu, e io mi spingo a cercarvi il giusto tepore del riposo. Come un gatto mi ci raggomitolo attorno, e questa porzione di letto, con dentro il tuo odore e la tua temperatura, cerco di trattenerla con me il più possibile. Vorrei arrivare a mattina, superare la soglia dell’alba, e sentirli ancora addosso. E’ una giusta chimica, quella che si è formata in questo letto. Ma non c’è quiete, per ora. Stendo le gambe, sono irrigidite e scosse da continue , piccole, inesorabili scosse elettriche. Le sfioro, sperando di calmarle, ma loro sono come elettrificate. Non le controlla il mio cervello. Devono placarsi da sole, quando sarà il ventre a dire basta. E allora chiudo gli occhi. L’odore, il calore, il ballo delle gambe, tutto, mi tiene aggrappata a quello che ci è successo stasera. L’incontro per le scale del palazzo, il tuo sorriso ironico, l’invito a prender un bicchier d'acqua che poi diventa una pasta mangiata assieme, i racconti di vita reciproca. E poi la tua mano che sfiora il mio collo mentre lavo i piatti, l’ altra che cinge i miei fianchi. Il mio sorriso, il tuo sorriso. La tua bocca che cerca la mia e la mia che risponde e quelle parole silenziose che si dicono solo quando ci si bacia. E ancora le tue mani, che mi stringono ora con forza, che si aggrappano ai miei seni, fino a far male. Mani che scendono , con la volontà di liberarci dalla stretta costrizione di vestiti, adesso inutili. Una barriera al calore, autentico, dei nostri corpi che si cercano, si sfiorano, si assaggiano come se la fame fosse quella di una vita. E solo ora si potesse davvero mangiare. E ancora io, sopra di te, a sorriderti, ondeggiando, pensando che a questo punto non sei manco tu dentro di me ma sono io dentro di te dentro di me. E il calore sale e la fame aumenta. Tu che ridi dei miei occhi gialli, che quando faccio l’amore paio una lupa polacca, dici. E io che rido delle tue buffe smorfie, che mi divertono, dico. E ridendo e assaporando, io mangio la tua vita e tu la mia, mentre io mi muovo sopra di te, imparando ad andare al tuo di ritmo. Siamo come due ballerini che hanno paura di pestarsi i piedi nel paso doble e vanno lenti, ma convinti, e più trovano sintonia, più improvvisano e sanno andar veloci e trovano la loro, di musica, da ballare. E quando sentiamo che tu sei davvero dentro di me che sono dentro di te che sei dentro di me, allora, si può solo gridare. Non si può dire, tranne quel che sa dire un lungo bacio disperato che non saprà mai di morte. Perché la vecchia stanotte, in questo letto, l’abbiamo fregata di nuovo, scacciandola con la chimica del nostro piacere. E dormire adesso sì che diventa facile e le gambe si placano, lentamente. E il sorriso mi fa compagnia, come fa compagnia a te stanotte.

Parole

Ci sono persone, che non pensavo, che mi entrano sotto pelle e ci navigano dentro, silenziose il più delle volte, e poi quando vogliono loro, sanno dire parole che, con l'eco che si produce improvviso sotto pelle, finiscono con lo smuovermi dentro, dal cervello al ventre. E io resto stupita a veder come reagiscono i miei due cervelli, che hanno bisogno di onestà e sensibilità, oggi, per muoversi davvero, davanti a queste parole che mica sono dette per me, ma hanno toni veri, fondamentali.
Mi spunta una lacrima perché so cosa significa amare con le ossa e non solo con il corpo, il cervello e la pancia. Ricerco quella sensazione, che mica sempre la trovi e tantomeno al supermercato delle emozioni.
Non è una lacrima triste, piangiamo per toglierci le tossine dal cervello e pure le parole, talvolta, hanno il potere di depurarci dentro. E io che ora so chi sono e voglio andare nel bosco ad accarezzare quel lupo, che in certe notti, nei sogni, mi viene a trovare, e stavolta ci voglio camminare assieme senza paura che mi azzanni e mi lasci con la gola squarciata a terra a cercar di dire una parola che non so dire, sono felice che ci sia ancora chi le sa dire le parole, quelle fondamentali. Che escono dal cervello, vengono filtrate dalla pancia ed escono potenti e rafforzate. Come un pugno che ti intontisce e poi ti costringe a reagire.

domenica 7 dicembre 2008

Alla porta

Se tu fossi il mare mi tufferei di corsa
ancora con i vestiti addosso
Mi lascerei bagnare e
sferzare dalle tue onde.
E pure la paperella si divertirebbe.

Se tu fossi il cielo, noleggerei un deltaplano
per venirti a solleticare
giocando con le tue correnti ascensionali
per poi baciarti a sorpresa.
E il condor sarebbe complice.

Se tu fossi un vulcano, mi arrampicherei
fino a te, per toccar con un dito
quanto stai bollendo dentro e
porterei pure l' ovetto, per dopo,
da cucinar lentamente sotto la cenere.

Se tu fossi una foresta, organizzerei
una spedizione alla ricerca della tua
pianta più segreta e misteriosa.
Per rubarla, e trarne
un lisergico distillato di vita.

Ma non so chi sei e cosa vuoi da me
di domenica mattina.
Mi offri per casa una torre.
E io se mi chiudessi lì dentro
troverei come unico credo, il massacrarti.

Quindi, sciò, e stai in guardia.

sabato 6 dicembre 2008

Il maglione

Sono qui davanti al bar, l'indirizzo è quello giusto. Mi guardo attorno, per vedere se ci sei. La gente mi passa accanto e non mi nota, sono una dei tanti. Ma loro si muovono e io sto ferma, io aspetto. E l'orologio finisce con lo scandire il ritmo dei miei pensieri. Ma anche l'orologio, alla fine, non mi sta dietro. Va più lento di quel che sento, di quel che voglio. Se tu fossi qui, a pochi passi da me, a guardarmi mentre ti aspetto, sono sicura capiresti.
Le mie mani, nascoste nelle tasche del cappotto hanno voglia di stringere il tuo braccio. Le mie dita ripercorrono il tuo profilo, ricordano perfettamente il percorso e sapranno ritrovare la strada. Addosso ho il tuo profumo, l'odore del maglione che hai dimenticato da me, l'ultima volta. L' ho messo via accuratamente, è intatto. Per giorni l'ho guardato da lontano, temevo di avvicinarmi per non sentire quel profumo e ritrovarmi scossa dal vento. Indossarlo è stato come entrarti dentro, mescolarmi a te. Due odori, diversi, che ne creano uno solo. E' nata una nuova fragranza, insolita, inattesa. Ventosa e terrena. Un richiamo, racchiuso dentro questa lana. Per questo lo indosso, sotto il cappotto, in mezzo alla strada. Posso perdere te ma non la fragranza di quello che abbiamo creato. E sono venuta a dirtelo, di persona. Non riavrai il tuo maglione, perché nell'intreccio di questa lana verde ci sono oramai finita dentro anche io. Mescolata al tuo odore.


(dedicato ad una amica)

venerdì 5 dicembre 2008

Le cose che odio di me

Parlo troppo.
Starei ore a parlare, raccontare ed ascoltare le storie altrui. Con il rischio di risultare logorroica.
Sento troppo.
Sento prima che gli altri me lo dicano, quel che sta succedendo. A volte sento i distacchi, prima che avvengano. Quindi mi rovino anche l'effetto sorpresa.
Mi fido poco.
Solo pochi sanno davvero chi sono io. E il più delle volte si stupiscono.
Mi par di disturbare.
E così, quando voglio parlar di me, finisco con il temere di disturbare chi mi è vicino.
Temo la mia sensibilità.
Ho ancora troppo pudore nel mostrare quanto il mio cervello è sferzato dal vento.

giovedì 4 dicembre 2008

L'attesa che fa bene

Sto imparando ogni giorno.
Per alcune novità, lo ammetto, faccio fatica.
Come la pazienza.
Sto imparando a convivere
con l'arte del pazientare.
Ho capito che non è sempre giusto correre
a prendere quel che vuoi.
Rischi di non godertelo veramente.
Rischi di trasformare l'entusiasmo
in un assalto alla diligenza.
Oggi sto imparando
ad attendere che quel che desidero
arrivi da solo.
Imparo a lasciar che la diligenza
faccia la sua corsa, senza organizzare l'assalto.
E aspettando...il desiderio cresce.

mercoledì 3 dicembre 2008

la lettera - un racconto

Man mano che il livido si allarga sul collo, trasformandosi da un lungo segno rosso ad un ematoma nero, capisco che è ora di andarmene. Ci ho messo una notte, avevo bisogno di pensare dopo un pomeriggio passato a piangere. Forse tu non potrai mai capire, ma ho passato tutta la notte in salotto a pensare di riuscire ad aprir la porta ed andar via. Scendere le scale, raggiungere strada, salire su un qualsiasi bus e taxi. E respirare. Guardavo la porta, la chiave nella serratura e mi immaginavo tutte le azioni. Girare la chiave, aprire, camminare giù per le scale, aprire il portone e respirare. Per questo te lo scrivo, affinché tu sappia e , ma non pretendo tanto, capisca. Sono rimasta tutta la notte a piangere sul divano del salotto. Sognando di andarmene e disperandomi per ogni pensiero che invece mi diceva di restare, perché l'affetto che ancora provo per te mi diceva che saresti cambiato. Ma l'amore a volte è un pessimo consigliere. Quando arriva il presto? Alla fine è solo un concetto adattabile ai nostri personali egoismi. Non è garanzia di cambiamento, non porti addosso alcun certificato di garanzia che mi assicuri che cambierai in uno o due giorni. E io, che per amore potrei resistere una vita, ti dico che quella porta la apro, e vado fuori a respirare. Perché l'amore non è più così importante, perché con gli anni è diventato affetto e abitudine alla tua presenza nel mio letto, ai tuoi gesti poco gentili, alle tue battute sul mio corpo che invecchia. Un corpo che dici di disprezzare ma di cui sei geloso.
Dove l'ho messo l'amore? L'hai ucciso tu, con le tue mani. Giorno dopo giorno, con le tue inutili gelosie, con i tuoi schiaffi talmente ben assestati da lasciarmi rintronata per ore. Schiaffeggi bene, questo potrebbe essere anche un complimento, se non fosse che quei colpi sul mio viso sono sempre stati gratuiti, immotivati. E quando l'altra notte, mi hai stretto forte il collo, io ho smesso di respirare. La paura mi ha bloccato i polmoni, li ha resi immobili ed afoni. Da allora non parlo, non respiro, non vivo. E' questione di sopravvivenza, a questo punto. Un altro minuto, vicino a te, e anche il cuore potrebbe fermarsi. Ecco, cosa significa presto per me. Aprire subito, adesso, quella porta ed uscire a respirare, senza guardarmi indietro. Senza pensare che all'inizio tra noi era amore e passione. Senza sentire le risate dei ricordi. Oggi, in questa casa, c'è il silenzio. E' come se avessi vissuto questi mesi dentro un bicchiere capovolto, in cui non c'è più ossigeno. E l'amore in queste condizioni, muore. Muore la pazienza e non resta alcuna traccia di comprensione. Resta solo un livido nero sul collo.

martedì 2 dicembre 2008

Spiona

Non ho mai fatto la spia, non amo farla. Culturalmente la mia famiglia gli spioni li insegue da almeno tre generazioni per prenderli a calci in culo.
Ma giuro che se un giorno mi troverò al cospetto del Signore, Dio vostro, e mentre lui sarà impegnato a dirmi di andar a bussar altrove in quanto apostata, voglio puntargli il dito davanti all'occhio - per distrarlo - e dirgli due cosette.
Voglio dirgli che gli alti prelati, i vescovi, i Papi a cui fa spazio in Paradiso da secoli, quando erano in terra, loro, del suo Verbo hanno fatto spesso carta igienica con posizioni tutt'altro che dettate dall'amore e dalla compassione.
Voglio far proprio la spiona, per una volta. Poi me ne andrò tra gli omosessuali, le prostitute, le donne morte di aids con i loro figli per l'assenza di un preservativo, tra gli indios con le orecchie mozzate perché non adoravano la croce.
A farci quattro risate.

Tornite

Mi guardo allo specchio, e come ogni donna che si rispetti, spesso faccio l'elenco dei miei difetti. Ci casco pur sapendo che la perfezione è il male. Ma mi basta pensare alla conoscente tacchettata, modello manico di scopa, che mi capita spesso di incontrare, per star meglio. Gli amici dicono che sono tanta, quando vogliono farmi un complimento. E io sorrido, perché so che è assolutamente vero. Un corpo, uno stile di vita, quello dell'abbondanza.
Di me dico che sono tornita. E mi va bene dirlo, perché sono la prima a scherzare sulle mie rotondità. Con cui, alla fin fine, convivo ora benissimo. Quando esco con la mia compagnia di amici e amiche, raggiungo in fretta il top degli abbracci.
Lo so, sono confortevole e questo mi rende orgogliosa.
Fino a qualche anno fa anche io ambivo al ruolo di donna stecco. Le guardiamo ammirate apparire sulle riviste di moda, bellissime e senza rughe e ti vien l'invidia della perfezione, della totale assenza di cellulite. Poi rivedi i loro cloni per le strade, che avanzano sui tacchetti con facce tristi e piene di rughe, per i troppi chili persi in fretta.
Tavole senza culo e seni, prive di rotondità, irrigidite nei loro ruoli di donne perfette. Perfette per chi, questo è il punto. Per gli stilisti e le riviste o per loro? Non credo affatto siano loro a scegliere, alla fine. E a me vien la tristezza, che mi tocca fermare con un quadretto di fondente extra. O con un abbraccio forte, che è ancora meglio.

Sirene spietate

Avessi qualcosa da dirti, te lo direi, credimi. E' che non ho proprio niente da dire. Non è questione che non ho voglia, che son stanca. Non ho manco mal di testa. Se penso a te, e qualche volta mi capita perché ho il terribile difetto di non dimenticare, sento che non ho assolutamente niente da dire. E allora è bene tacere, girar la testa altrove. Pensare a farsi bene e non preoccuparsi più di niente. Non mi fa manco più sorridere il ricordo delle risate di un tempo, il continuo fruscio delle lenzuola, le tue continue parole dette anche quando era meglio che stessimo zitti.
Abbiamo parlato così tanto che oggi, almeno per me, qualsiasi monosillabo uscito dalla mia bocca appare inutile. Perché già detto. E sai quanto odio ripetermi.
E siccome, tutto ricordo, il già detto lo individuo all'istante e lo evito di conseguenza.
Ma tu continui a parlare, invece, alzi pure la voce. Ti sei arrabbiato , al solito. Sei arrivato, mi ha visto ed hai cominciato ad insultarmi. Ok, era la tua macchina. Ok, ti ho riconosciuto. Ti ho visto scendere e cominciar a far il tuo lavoro. E io che pensavo agli affari miei, ho accelerato. Senza pensarci, avevo la testa altrove. Sì, ho cozzato. Volontariamente? No, il termine esatto è istintivamente.
Tu urli, io non ho niente da dire e fatico pure a sentirle quelle parole, così afone. L'unica cosa che ho sentito netta è stato il suono della sirena della tua auto di servizio che superava la mia Punto e poi si piazzava sotto al cavalcavia. Una sirena fastidiosa e così ho accelerato e l'ho fatta smettere. Ho fatto male? No, non credo. Era una sirena spietata.
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