Fatacarabina

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lunedì 26 gennaio 2009

Non t'arrabbiare

Voi ai fantasmi ci credete? Io qualche dubbio ce l'ho, non lo nego. Ma da quando ho visto quel che ho visto e sentito quel che mi hanno raccontato, mi pongo qualche domanda in più e ho sempre qualche spiegazione razionale in meno da dare. C'era una casa in Toscana, dove si andava con gli amici a trascorrere il Capodanno o l'Epifania e dove ci faceva compagnia un fantasma.
Un tipo giocherellone più che pauroso. Uno che faceva scherzi, principalmente. E che finiva con il far paura, perché ovviamente quel che fa un fantasma mica te lo aspetti e ti riempi di strizza, di dubbi, di interrogativi. E non è il massimo.
Beh, in quella casa il fantasma si divertiva. Probabilmente lo faceva anche per combatter la noia. Stava mesi in quella casa vuota senza nessuno con cui giocare. E poi all'improvviso arrivavamo noi, che eravamo una novità e portavamo musica rock, salami, bottiglie di vino, il Viparo da far caldo e la legna per accendere il camino. E si stava fino a notte fonda davanti al fuoco, a ridere o a giocare a "Non t'arrabbiare", versione indianata. Ovvero, quando l'avversario ti faceva uscire dal gioco dovevi bere un bicchiere di vino rosso. E si finiva spesso ubriachi a cercare il letto giusto dove passar la notte, avvolti da una montagna di coperte. Perché le case vecchie, sperse nelle colline, sono freddissime e in due giorni non le scaldi neanche se bruci la casa intera. Faceva freddo, eravamo spesso in condizioni tali da non ricordare molto il giorno dopo di quel che si era fatto la notte prima. E il fantasma ne approfittava, giocava con noi.
Forse sperava che non ci saremmo mai accorti della sua presenza. Ma come ogni spiritello, lui il segno lo lasciava. Sempre. Potevi esser anche brillo ma se andavi al bagno al secondo piano della casa, con la finestra che dava diritta sul bosco, e ti sedevi sulla tazza del water, lo sentivi di notte. Lui arrivava di colpo: batteva sugli scuri della finestra che avevi di fianco. Cinque, sette, dieci colpi. Come uno che bussa ad una porta. Tu pensavi ad uno scherzo, ma i colpi erano nitidi, perfetti, come di una mano che colpisce ritmicamente il legno. E la finestra stava almeno a sei metri d'altezza da terra. Pensavi fossero i tuoi amici. Ti dicevi che erano fuori nel cortile a farti lo scherzo e magari avevano usato una scala per salire. Allora aprivi la finestra e gli scuri. E non c'era nessuno, c'era solo il bosco davanti a te. Gli amici se ne stavano invece tutti davanti al caminetto a guardare il fuoco. Oppure te ne andavi a letto e socchiudevi la porta della camera, ma senza chiudere a chiave. E la mattina dopo, riposato e cosciente, ti trovavi chiuso dentro la stanza, perché la porta era stata chiusa con quattro mandate. E la chiave mica era nella toppa. E così prima ti toccava aspettare che qualcuno passasse per il salone, sentisse le tue urla e venisse in soccorso. Ma senza chiave mica potevi aprir la porta e così ti mettevi a cercare dappertutto e alla fine, dopo un'ora buona, la chiave la trovavi. Sotto l'armadio che era di fronte alla porta, infilata in fondo, vicino al muro. Per farla arrivare fino a lì avresti dovuto distenderti per terra, infilare la mano sotto l'armadio e infilarla in fondo. Ma tu mica l'avevi fatto e tra l'altro avevi pure paura a chiuderti a chiave in una stanza.
C'era poi la faccenda del busto: raffigurava una parente del padrone di casa che ci ospitava per le vacanze. Era morta giovane ed un artista le aveva dedicato un busto che ritraeva il suo viso serio. Il busto troneggiava sopra il caminetto e mi guardava. Sempre. Potevo essere in qualsiasi punto del salone e lei mi fissava, girava proprio l'occhio per vedere dove ero. Era alquanto imbarazzante ballare con una tipa di gesso che ti fissa seria, tutto il tempo. Ma coprirla con un telo, sarebbe stato offensivo, un affronto nei confronti della buonanima. E così convivevo con lo sguardo arcigno della signora di gesso. Forse lei aveva capito subito che io ero una che marcava male.
Lo spiritello, invece, non mi stava così antipatico. Alla fine lui era un buono che aveva solo voglia di divertirsi un pochino.
Mi salvò una volta da una doccia improvvisa quando gli amici architettarono nei miei confronti il vecchio scherzo del bicchiere pieno d'acqua messo sopra la porta. Quando tu apri, il bicchiere dovrebbe cadere e finirti addosso con tutto il contenuto. Dovrebbe ed uso il condizionale mica a caso, visto che quando toccò a me aprire la porta, il bicchiere rimase perfettamente al suo posto ed io passai indenne. Alla fine io me la ridevo, gli amici mica tanto.
Un giorno ci lasciò anche un regalo: trovammo nell'unica stanza vuota di casa, un disegno. Raffigurava un bambino, un sole, una casetta. Un disegno, sicuramente opera di una mano ragazzina. Ma nella casa da anni non c'erano più bambini. Da anni. Per la verità un giorno, un bimbo venne visto in quella casa. Sfortunamente non fui io a vederlo, anche se ammetto mi sarebbe piaciuto proprio conoscerlo. Il bambino aveva i capelli neri, con un taglio a caschetto anni Settanta e i pantaloncini corti.
Attraversò il corridoio ed entrò nella stanza da bagno mentre una amica si stava lavando nella vasca. Lei lo vide perfettamente, ci raccontò poi, entrare nel bagno, guardarla e poi riuscire percorrendo il corridoio verso il salone. Lei gli corse dietro per capire chi fosse ma arrivata nel salone non c'era più nessuno. Aveva gli occhi neri e liquidi, come se avesse il raffreddore, ma era estate. E sorrideva lievemente. Non faceva paura, mi raccontarono poi, anche se un pochino di freddo addosso te lo faceva sentire. Era un bambino. E con i piccoli, anche se spiritelli, cosa puoi fare? Mica ti puoi arrabbiare, devi lasciarli giocare.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bellobellobello :)

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