Fatacarabina

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giovedì 5 febbraio 2009

La solitudine del titolista

Eccolo, altro che refuso. Questa è assoluta ignoranza. Come fai a scrivere che è partita la campagna per il riciclaggio dei rifiuti? Riciclo è la parola giusta da usare. Dovrei chiamarlo Brandolini e dirglielo. Ma non lo prendo neanche in mano il telefono, per chiamare il collaboratore numero 12. Alvise Brandolini, per gli amici il "Branson", che sogna un futuro da nerista, a scriver di omicidi e rapine, e intanto mi mette virgole a pioggia e parole a caso.
Ma lo sanno i miei dodici collaboratori cosa è un dizionario? O lo hanno regalato alla San Vincenzo, destinato a scaldare i falò di qualche senza tetto? No, magari, il barbone, a differenza dei miei collaboratori, il dizionario finisce che se lo legge, se lo tiene come compagnia per le notti tristi, quando il vino non scalda e la solitudine avanza con la falcata di un esercito invasore.
Io di solitudine me ne intendo, e so che i libri sono meglio di certe amanti volubili. E mi deprime aver a che fare con tutti questi "Branson", che non sanno ancora scrivere un articolo e che manco rileggono il giorno dopo il loro lavoro pubblicato. Giovani che si sentono giornalisti d'assalto, ma ragionano a moduli. Tot moduli, tot soldi e la regola è scrivere tanto. Per guadagnare. Li capisco, io ai miei tempi prima di esser assunto al giornale ho fatto il precario per cinque anni e i soldi non mi bastavano per pagare la benzina e da mangiare e comprarmi una raffica di scarpe viste le suole che ho consumato.
Ma scrivere in un giornale non è solo un bel lavoro. E' un impegno, un miglioramento quotidiano.
E questo i miei dodici collaboratori, invece, credo non lo sappiano affatto.
Io sono un deskista, una volta si sarebbe detto il titolista. Lavoro in un giornale di provincia da 25 anni. Di fatto, non faccio più il giornalista da sei anni. Anche se i vecchi amici di un tempo, la gente che mi ha conosciuto per i miei articoli sulla malasanità negli ospedali, mi telefona ancora e qualcuno, dice, rimpiange la mia penna avvelenata. Quando esco a passeggiare nel mio giorno di riposo, in paese tutti mi salutano con la reverenza che si usa ancora in campagna a chi ha un ruolo sociale. Ma io oggi sono solo un deskista. E un ruolo sociale manco so cosa sia. Faccio titoli. "Il sindaco tal dei tali apre ai comitati anti-traffico". "Rapina vecchietta e scappa in scooter". Alla fine sono una specie di cuciniere del giornale. Passo i pezzi degli altri, li metto a misura, tolgo strafalcioni e refusi, se serve cambio attacchi indecorosi, elimino una tempesta di virgole gettate a caso e poi preparo titoli e sommari, cerco foto.
Lavoro di "cucina", altro che la caccia della notizia. Ogni tanto quando serve, mi chiedono ancora di scrivere ma finisco con il "passare" comunicati. Veline che vengono ridotte o allungate, a seconda dello spazio. E ogni giorno che passa, tutto questo diventa sempre meno divertente. Non mi innamoro più di niente. Del lavoro come delle belle donne. Tra le collaboratrici del giornale, alcune sono davvero carine. Ma sono giovani, ed io oggi solo solo un attempato deskista. Che ha perso il senso della notizia. E dell'amore.
Leggo cose che mi annoiano, figuriamoci se credo che i lettori faranno la ressa in edicola per leggere quel che scriviamo. Se mandassimo in stampa un giornale senza una parola scritta, pagine bianche che seguono pagine bianche, non farebbe differenza. E non c'è manco più il rito di inserire almeno una bella notizia al giorno. Si va a caccia dello scoop, della storia pruriginosa o sanguinolenta sperando di vendere di più. Il giorno dopo, noi e la concorrenza, scriviamo praticamente le stesse brutte storie, scritte male. Ma io ho un piccolo segreto, che mi aiuta ogni tanto a sorridere.
Un giorno ero solo con quattro pagine da disegnare e assemblare. Alla quarta pagina, un pezzo di una decina di moduli era saltato. Il buco di pagina andava coperto con altro e io non avevo niente da usare come riempitivo. Sono rimasto un'ora a cercare, tra telefonate ai collaboratori e ricerche sulle agenzie e tra le pagine web. Niente, io non vedevo una notizia che valesse la pena pubblicare. E allora, stanco e infastidito, mi è venuta l'idea: ho tirato fuori dal cassetto la raccolta di poesie di Neruda e ne ho ricopiata una. Tanto, mi sono detto, nessuno legge i giornali. La gente si ferma ai titoli, il più delle volte. E quindi nessuno si sarebbe accorto che al posto di un articolo c'era "Perché tu possa ascoltarmi". Il titolo era completamente diverso, non c'entrava niente con la poesia. "Incontri di ascolto per cittadini".
Sono andato a casa sorridendo ma poi, durante la notte, mi è venuto il rimorso. Mi sono sentito un impostore, avevo tradito la regola della notizia.
L' indomani sono arrivato in redazione, preoccupato. Temevo che i capi si sarebbero accorti della sostituzione e che il direttore mi avrebbe convocato nel giro di dieci minuti per una sonora lavata di capo. E se se la prendeva di brutto, rischiavo un richiamo scritto da parte dell'azienda.
Ho passato la giornata come se fossi in attesa di un castigo e invece nessuno mi ha convocato in direzione, nessuno mi ha detto nulla. Neanche una telefonata di protesta da parte di un lettore. La poesia era passata assolutamente inosservata.
Da quel giorno, quando ho un "buco" in una pagina, non sto neanche a preoccuparmi: apro la raccolta di Neruda e pubblico un pezzo di una sua poesia. Intera o parziale, non è importante.
Uso solo le colonne in basso, per non dare nell'occhio. Evito di farlo più di una volta ogni quindici giorni.
Ma questo, lo ammetto, è diventato il mio momento di gioia. E' un sabotaggio, quasi, ma mi piace così tanto, che la scorsa settimana ho tolto un pezzo su una sagra di paese che era una lista di date di ballo liscio, per inserirci una poesia mia. Poche righe che avevo scritto alcuni anni fa, dedicate ad una donna che ho amato e mai avuto.
Da un ripiego sono passato ad un sabotaggio lessicale premeditato, è vero. Ora vado al lavoro con un piccolo sorriso di soddisfazione. Alla mail del mio settore, che fortunatamente controllo io, arrivano alcune lettere di lettori che dicono di aver letto la poesia, che è loro piaciuta, che vorrebbero una rubrica. E chiedono ogni volta come mai mettiamo dei titoli così istituzionali e spesso per niente legati al messaggio del testo. Io le metto tutte da parte, nel mio archivio personale. E rispondo a tutti, così sono certo che non scriveranno di nuovo, magari al direttore. Spiego che si è trattato di un errore di impaginazione ma che segnalerò alla direzione l'interesse per un piccolo angolo della poesia. Insomma, vedremo cosa si può fare, gentile lettore che non sei disattento. Io ci scriverei anche : grazie di non essere una mosca bianca. Ma poi lascio perdere. Ora, comunque, una volta ogni 15 giorni sorrido alla mia scrivania. Sono un titolista ma ogni tanto, io, al posto di inutili notizie, spaccio poesia.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto belle le ultime parole: "spaccio poesia"!

fatacarabina ha detto...

Mariela grazie

Anonimo ha detto...

Ma che meraviglia questo racconto, brava! :-*

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