Fatacarabina

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venerdì 11 giugno 2010

Metti una sera in via Piave

Ci son volte che per lavoro vado in posti e devo far una toccata e fuga veloce che c'è l'urgenza della pagina da chiudere. E' lavoro.
Ci son volte che vado a vedere situazioni e torno in ufficio con il magone, che avrei voluto restare lì, e godermi la situazione.
Ieri sera son stata in via Piave, che dicono è una zona pericolosa della mia città. La zona  più multietnica della mia città. Io ci sono stata spesso, anche una sera con gli amici, a piedi. Prima lo spritz, poi la cena, poi abbiamo osato oltrepassare il sottopasso della stazione per il bicchiere della staffa. Siamo stati benissimo, nessuno ci ha fatto niente. Ci sono tornata anche ieri sera che il comitato di quartiere con i ragazzi del Comune che si occupano delle zone  disagiata, gli operatori di strada li chiamano, hanno organizzato una cena di quartiere. Se imbocchi via Buccari, e lo puoi  fare solo a piedi, arrivi in piazzetta San Francesco. E lì ieri sera mi pareva di esser a Parigi, mica a Mestre, quel posto dove abbiamo il più alto tasso di tumori polmonari del Nord Italia, tanto per dire.
Son arrivata e mi ha accolto il sorriso di Roberta. Ci conosciamo da una vita direi. Lei operatrice di strada, ha lavorato con me quando ho girato un video, finito chissà dove, sulle "patate bollenti", i ragazzi pieni di problemi che non eran molto diversi da me. Ci siamo baciate e poi mi son girata verso il bancone allestito per raccogliere il cibo portato da quanti volevano partecipare alla cena. Tutto gratis, per una sera.  Si cena tutti assieme in piazzetta sui tavoli della parrocchia, basta portar qualcosa. C'erano le sarde in saor e la zuppa ucraina, la sopressa a fianco dei dolci indiani, una marea di pasta fredda e vovi duri con l'acciughetta e pure la panissa genovese. C'era la Marisa che ha 78 anni e di sera non esce mai e la Safja che arriva dal Bangladesh ed ha una laurea in filosofia e dice che c'è casino qui come a casa sua e infatti è andata a vivere in campagna, non lontano da casa dei miei. C'è Michele, figlio di un bangla, che è italiano. Ha due anni e porta una maglietta con su scritto: 50 % terrone, 50% straniero, 100 % italiano. E una faccina da strucconi. C'è l'ex sindacalista con la insalata russa e il vicesindaco che arriva con l'insalata di riso. Il suo segretario porta il prosecco e il consigliere comunale i vovi duri. C'è la parlamentare che mangia con i vicini di condominio: un bangla, un italiano, tre cinesi, un senegalese. Ci sono gli universitari con le pastine. Quando sto per andarmene, che ho la pagina da chiudere, uno tira fuori la fisarmonica. E a me dispiace dover lasciare quel che vedo.
Che tanti qui, mi chiamano per nome, non per cognome, e questo fa la differenza tra il niente dell'indifferenza e il tutto di esser parte, piccola, di una città e dei suoi problemi, e pure dei suoi momenti di gioia. Del veder la Marisa che è uscita di casa, del veder la Safja che mi racconta che è felice perché canta nel coro multietnico del quartiere, del veder il Giovanni, ex sindacalista cristiano che se la ride, in mezzo ad una marea di 200 facce che non han paura.
Perché spesso la paura è una opinione, non una realtà.

3 commenti:

Caigo ha detto...

Ho letto l'articolo sulla Nuova.
Veramente una bella iniziativa, alla faccia delle tante chiacchiere di chi NON trova soluzioni.
Speriamo non rimanga un episodio isolato e che porti dei buoni frutti.

[ ] ha detto...

Mitia, straordinario post.
Braverrima.
Mi si è aperto il cuore di persona e di cittadina.
Grazie :-)

simple ha detto...

clap, clap, clap (all'iniziativa e al post)

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