E' sempre stata lei a chiamarmi, lo faceva ogni tanto. Passavano anche mesi senza sentirla, poi, una sera, suonava il cellulare ed era lei. "Ciao, sono appena uscita dall'ospedale", mi ha detto l'ultima volta. E mi ha raccontato delle botte che aveva preso da un cliente, che l'aveva rapinata. E aveva calcato la mano sulla sua faccia, con una rabbia che mi disse, la lasciò, dolorante e sconvolta. Probabilmente se ne è andata, sono andata un paio di volte a vedere dove lavora di solito e non l'ho più vista. Era bionda, alta, muscolosa, con una quinta di seno a cui mancava solo la parola per essere un essere con vita propria. Portava tacchi alti, gonne al ginocchio strettissime e pellicce vistose, di quelle che a me fan venir la desolazione della vista di un cimitero.
La prima volta che è venuta a trovarmi era preoccupata per una collega. Arrivò in taxi con una amica, lei biondissima, l'altra mora. Due superdonne.
I modi gentili, la voce con la cadenza brasiliana, gli occhiali neri firmati, il completo elegante e quelle pellicce lunghe fino ai piedi. Io le ascoltai, presi appunti, feci quello che dovevo fare. Ma i miei occhi curiosi cadevano sui movimenti gentili delle mani, sui piedi ben calzati e ben posizionati a terra, sulle unghie perfettamente laccate, sul trucco eccessivo e sul pomo di Adamo che andava su e giù e che difficilmente non si poteva non notare, tra donne sedute a chiacchierare. I miei colleghi invece sbavavano dal vetro retrostante e ci scappò qualche commento grossolano a volume zero.
Un paio di giorni dopo quell'incontro mi chiamò e lo fece per anni, poi. Ogni tanto. Chiamava per raccontare degli sviluppi di quella storia, ma anche per raccontare delle colleghe picchiate dagli albanesi o delle risse di strada e di quello strano cliente, che aveva il vizietto di drogarle e di consumare poi per un paio di giorni, a gratis, approfittando del loro torpore indotto. Mi diceva sempre: "Non venire a trovarmi, che la strada fa paura. Se arrivi squilla e io mi faccio trovare più lontano che andiamo a berci un caffè". Di clienti ne aveva tanti, mi raccontava. A bere il caffè non ci sono andata, temevo di metterla nei casini sul posto di lavoro.
Ogni volta la telefonata era uno sfogo, che poi finiva con la sua voce quieta che mi chiedeva "Come stai? Li curi bene i tuoi bei capelli?". E più di qualche volta siamo finite a conversare del più e del meno, come due amiche qualunque. In un posto qualunque. Senza transazioni.
"È vero, zio Stojil, ho visto una fata che ha trasformato un tizio in fiore." "Meglio così che il contrario," risponde Stojil senza togliere gli occhi dalla scacchiera. "Perché?" "Perché il giorno in cui le fate trasformeranno i fiori in tizi, la campagna diventerà infrequentabile."
Fatacarabina
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9 commenti:
Fata, leggerti è sempre bello... Quando racconti storie come questa, quel filo tra chi scrive e chi legge (di cui parlavi qualche post fa) si sente forte e chiaro. Semplicemente.
grazie Laura :) smack
Sì, molto bello, serenamente amaro.
Ma... tutto bene per lei?
Spira aria di brutta fine, da quel che scrivi.
Spero non sia arrivata.
Pepper, non lo so, spero stia bene.
sottoscrivo quanto già detto da Laura (e sottolineo forte e chiaro)
Ecco Fata, spero che tu possa scrivere presto che ti ha di nuovo chiamata e che è tutto ok...
Eì la missione, e se vogliamo, il privilegio del tuo lavoro, far conoscere le storie degli "altri"...varie umanità potremmo dire.
Non si deve per forza arrivare alle pagine di cronaca nera per aprire gli occhi verso i mondi che la gente normale (che poi cosa vorrà dire normale...) non conosce.
giusto, caigo
Buon lavoro ;-)
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