Hotel Ushuaia
"È vero, zio Stojil, ho visto una fata che ha trasformato un tizio in fiore." "Meglio così che il contrario," risponde Stojil senza togliere gli occhi dalla scacchiera. "Perché?" "Perché il giorno in cui le fate trasformeranno i fiori in tizi, la campagna diventerà infrequentabile."
Fatacarabina
giovedì 19 maggio 2016
Compagne di marea
Sto parlando di donne. Ieri sono stata a vogare. Sì, io ho preso una pagaia in mano, la mia prima volta, e ho cercato di seguire il ritmo di dieci donne, età e storie diverse, unite in una squadra caciarona e sorridente, che solca l'acqua del parco di San Giuliano due volte la settimana, di pomeriggio.
Sono unite da una cicatrice, quella dell'operazione per rimuovere un tumore al seno, che non si vede sotto le magliette sportive ma che c'è. Sempre.
Ognuna ha una storia, da raccontare. Ognuna a colpi di pagaia affronta le conseguenze di quell'intervento. Ognuna oggi si sente diversa.
Sono uscita a vogare con loro per deporre un fiore, in acqua, per mia madre.
Ci ho lasciato qualche lacrima sull'acqua della laguna quando abbiamo fermato la barca e lasciato andare i fiori a seguire la rotta della marea.
Ma mi sono rimaste nelle orecchie le risate di queste donne che ce la stanno mettendo tutta per continuare ad essere felici e hanno trovato in acqua, in squadra, nuovi stimoli e nuove amicizie, nuove sfide e uno stile di vita diverso.
Vogare è una attività sportiva che aiuta, quando hai i postumi dell'intervento e il braccio si ingrossa perché ti hanno levato i linfonodi; quel movimento, il vogare, aiuta, dicono. La forza che si imprime sull'acqua rafforza.
In tante lo fanno in giro per l'Italia. Formano squadre che si sfidano a colpi di remi. A Mestre le donne del Trifoglio Rosa stanno facendo progressi ma cercano compagne di marea, donne che si uniscano al gruppo per rafforzare la squadra. Esperte e meno esperte, capaci di nuotare o meno, non importa. A poco a poco si impara, la paura di cadere in acqua in trenta secondi passa, se succede c'è il salvagente. Il ritmo è la cosa più importante da imparare e mica è facile ma anche quello ha bisogno dei suoi tempi. Un attimo ce la fai, l'attimo dopo sbatti contro il remo vicino. Ti scusi e riprendi. Ma abbattersi è inutile, bisogna remare.
Se una esperienza come questa poi la fai al parco di San Giuliano, negli spazi della Canottieri, hai un doppio regalo: una esperienza nuova in un posto pazzesco con la laguna davanti agli occhi, un ambiente popolare e simpatico, nel verde di una Mestre che non ti aspetti.
Insomma se qualcuna delle amiche e delle amiche delle amiche, ha voglia di provare, mi faccia sapere che le metto sulla strada del Trifoglio rosa.
Duri i banchi
sabato 19 marzo 2016
Di carta
"La Castagna Matta" hanno deciso di farla anche di carta.
La potete comperare solo su Amazon.it - qui il link per acquistare la versione con copertina flessibile oppure l'ebook.
Un libro che rivive di carta, rivive di nuovo.
E non si può non esserne contenti.
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Un libro che rivive di carta, rivive di nuovo.
E non si può non esserne contenti.
martedì 5 gennaio 2016
Essere coriandolo, oggi
Ho avuto timore di svanire, così, puufff, come i coriandoli lanciati in aria per Carnevale.
Di diventare mille pezzetti colorati, rotondi, quadrati, sgranati, che si sollevano nell'aria con un puuff e poi ricadono giù.
L'attesa che diventa esplosione, uno svanire immediato.
Mi sono immaginata, dopo: millimetrica, millesima, infinitamente piccola, coloratissima e divertente.
Se lo dici, che stai per diventare coriandolo, in fondo non vieni capito.
Il coriandolo è fatto di attesa, è se stesso nel momento dell'esplosione. Poi diventa un di più, come il Carnevale. Se gli va male diventa rifiuto di strada, cosina che spazzi via dopo che ti sei divertito a veder giocare i bambini. Se è fortunato finisce a giocare col vento. Oppure gli va meglio di Dio se diventa coriandolo che si confonde tra capelli fieri, portato con nonchalance ed ironia su uno sguardo fiero.
Ancora, poi ho pensato. Ma, dopo, finito il puuuff dell'esplosione, come ci si ricompone?
Magari vieni amorevolmente raccolto da terra con scopa e paletta, riposto in un sacchettino, tenuto buono per il prossimo Carnevale, il prossimo slancio.
Non mi pare giusto, ci vorrebbe una colla per ricomporsi tutto ma non sufficientemente dura da impedire la prossima esplosione.
Non è facile essere un coriandolo, oggi. Millesima parte di sé. Puro desiderio.
Di diventare mille pezzetti colorati, rotondi, quadrati, sgranati, che si sollevano nell'aria con un puuff e poi ricadono giù.
L'attesa che diventa esplosione, uno svanire immediato.
Mi sono immaginata, dopo: millimetrica, millesima, infinitamente piccola, coloratissima e divertente.
Se lo dici, che stai per diventare coriandolo, in fondo non vieni capito.
Il coriandolo è fatto di attesa, è se stesso nel momento dell'esplosione. Poi diventa un di più, come il Carnevale. Se gli va male diventa rifiuto di strada, cosina che spazzi via dopo che ti sei divertito a veder giocare i bambini. Se è fortunato finisce a giocare col vento. Oppure gli va meglio di Dio se diventa coriandolo che si confonde tra capelli fieri, portato con nonchalance ed ironia su uno sguardo fiero.
Ancora, poi ho pensato. Ma, dopo, finito il puuuff dell'esplosione, come ci si ricompone?
Magari vieni amorevolmente raccolto da terra con scopa e paletta, riposto in un sacchettino, tenuto buono per il prossimo Carnevale, il prossimo slancio.
Non mi pare giusto, ci vorrebbe una colla per ricomporsi tutto ma non sufficientemente dura da impedire la prossima esplosione.
Non è facile essere un coriandolo, oggi. Millesima parte di sé. Puro desiderio.
domenica 27 dicembre 2015
Virata ottanio
Scrivo poco, qui niente. Scrivo su foglietti sparsi che mi tocca numerare altrimenti non trovo il bandolo. La matassa è tutta ancora arruffata, come un gatto spettinato. Una matassa ottanio, a cui penso spesso. Poi c'è il resto, la maggior parte, che è tutta vita.
A momenti complicata, a momenti triste, perché non ci siamo solo noi, ci sono gli altri che hanno bisogno di noi. Dal mio punto di vista questa vita è per lo più serena e allegra, fatta di voglia di fare e provare a fare. Fatta di una insolita felicità che mi prende e mi fa fare un balletto, sempre diverso, sempre divertente e un poco buffo. Leggero.
Mi va benissimo così.
PS: a tutti voi che vi ricordate ancora di questo posticino, tanti auguri di buone feste. Siate leggeri.
A momenti complicata, a momenti triste, perché non ci siamo solo noi, ci sono gli altri che hanno bisogno di noi. Dal mio punto di vista questa vita è per lo più serena e allegra, fatta di voglia di fare e provare a fare. Fatta di una insolita felicità che mi prende e mi fa fare un balletto, sempre diverso, sempre divertente e un poco buffo. Leggero.
Mi va benissimo così.
PS: a tutti voi che vi ricordate ancora di questo posticino, tanti auguri di buone feste. Siate leggeri.
venerdì 15 maggio 2015
Un ,due, tre, prova
Tzaa saaa!
Vediamo se si sente, ancora.
Sono mesi che non scrivo qui, lo so. Ma la domanda è: c'è ancora qualcuno che legge?
Ciao :)
Vediamo se si sente, ancora.
Sono mesi che non scrivo qui, lo so. Ma la domanda è: c'è ancora qualcuno che legge?
Ciao :)
mercoledì 25 febbraio 2015
I pesci sono indifferenti
è un racconto, non è lunghissimo, assomiglia ad un denso monologo dal Nordest
tutto raccontato sull'argine del Canal Salso che è fiume e non canale, e con una bottiglia di vino bianco da stappare.
I pesci sono indifferenti lo puoi leggere adesso, è arrivato terzo al premio Affini. Ciao
tutto raccontato sull'argine del Canal Salso che è fiume e non canale, e con una bottiglia di vino bianco da stappare.
I pesci sono indifferenti lo puoi leggere adesso, è arrivato terzo al premio Affini. Ciao
lunedì 13 ottobre 2014
Di efelidi, cespugli e contaminazioni
Ho scritto di efelidi , per la Settimana corta.
E sono arrivata terza al premio Affini con un racconto di fiume e vino, "I pesci sono indifferenti".
Ben, dai :)
E sono arrivata terza al premio Affini con un racconto di fiume e vino, "I pesci sono indifferenti".
Ben, dai :)
mercoledì 1 ottobre 2014
Jet lag
Sono tornata a casa. Mi piace partire, fare la valigia, andare, vedere, annusare, assaporare, camminare. E poi tornare con la sensazione di avere non solo la valigia più pesante ma anche l'animo più pieno.
New York non era una meta prefissata, è stato un evento inatteso, nel percorso nuovo che sto seguendo da un pezzo a questa parte.
Ho lasciato i miei stivaletti da motociclista neri all'angolo della quinta, dentro un sacchetto. Serviranno a qualcuno per camminarci ancora. Anni fa ho lasciato le mie vecchie pedule viola in un sacchetto in un paesello sulle Ande, con lo stesso intento. Farci camminare qualcun altro.
Ho camminato tanto a New York. Ho guardato molto.
Sono tornata con gli occhi aperti. Il viaggio aereo di ritorno è stato strano; a me è sembrato sia durato poco rispetto all'andata, annacquato dal senso del dormiveglia. Come la città non dorme mai, anche io ho finito con il tornare sveglia, ma annacquata da una sonnolenza che non si è ancora trasformata in sonno ristoratore. E prima di lasciarmi andare al riposo, ho voglia di scrivere. Ma non so bene cosa.
Mi è piaciuta New York, nonostante non sia tutto bello quello che ho visto.
Lo spreco incredibile di cibo mi ha infastidito. Sembra che ci sia così tanta fame che sia necessario sfornare cibo in porzioni triple a quelle a cui siamo abituati per sistemare tutto.
Mi ha infastidito che il barbone che mi ha chiesto una sigaretta per strada fosse pronto a pagarla un dollaro, come se fosse lì a dirmi che tutto, anche la gentilezza, in fondo, ha un prezzo.
Mi ha infastidito l'indifferenza della gente che non scendeva ad Ellis Island per vedere il museo dell'immigrazione che ha reso grande questo paese pieno di acri di terra da dividere e preferiva fotografarsi davanti alla statua della Libertà, così deludente nella sua riproduzione mignon in presa diretta.
Altre cose mi hanno piacevolmente colpito.
La gentilezza degli autisti di bus che non trovano affatto strano fermare il mezzo lungo la strada per accompagnare la signora in carrozzina al posto a lei riservato, dopo aver abbassato la pedana.
La risata della commessa che ha imparato un poco di spagnolo e per quello si sente pronta a provare a parlare italiano.
I sorrisi di sconosciuti passanti che incroci e che accennano un anonimo saluto in una città così piena di gente e dove, per sentirsi soli e protetti, basta abbassare il volto sullo schermo del telefonino.
Mi è piaciuta la solare allegria del centro di Harlem, la placida serenità di Central Park, il papà con il cappellino a cono in testa intento a far giocare la figlioletta a Bryant Park, le partite a bocce avvincenti come le sfide nel campetto di basket.
Mi è piaciuto ballare in metropolitana, senza sembrare una tarantolata, al ritmo di "Guantanamera", cantata da un vecchio suonatore.
Mi è piaciuto ascoltare le persone parlare ad alta voce con nelle orecchie chissà quale interlocutore telefonico.
Mi è piaciuto perdermi nell'architettura verticale e sognare una casina di legno tutta mia tra le casette del Village.
Mi è piaciuta e mi ha pure infastidito tutta questa moltitudine umana che cerca ogni giorno a fatica di vivere assieme.
Mi è piaciuto il dormiveglia del dover camminare tanto per vedere e cercare di capire.
E ora vorrei il sonno profondo, che fatica ad arrivare. Per pensarci su meglio.
New York non era una meta prefissata, è stato un evento inatteso, nel percorso nuovo che sto seguendo da un pezzo a questa parte.
Ho lasciato i miei stivaletti da motociclista neri all'angolo della quinta, dentro un sacchetto. Serviranno a qualcuno per camminarci ancora. Anni fa ho lasciato le mie vecchie pedule viola in un sacchetto in un paesello sulle Ande, con lo stesso intento. Farci camminare qualcun altro.
Ho camminato tanto a New York. Ho guardato molto.
Sono tornata con gli occhi aperti. Il viaggio aereo di ritorno è stato strano; a me è sembrato sia durato poco rispetto all'andata, annacquato dal senso del dormiveglia. Come la città non dorme mai, anche io ho finito con il tornare sveglia, ma annacquata da una sonnolenza che non si è ancora trasformata in sonno ristoratore. E prima di lasciarmi andare al riposo, ho voglia di scrivere. Ma non so bene cosa.
Mi è piaciuta New York, nonostante non sia tutto bello quello che ho visto.
Lo spreco incredibile di cibo mi ha infastidito. Sembra che ci sia così tanta fame che sia necessario sfornare cibo in porzioni triple a quelle a cui siamo abituati per sistemare tutto.
Mi ha infastidito che il barbone che mi ha chiesto una sigaretta per strada fosse pronto a pagarla un dollaro, come se fosse lì a dirmi che tutto, anche la gentilezza, in fondo, ha un prezzo.
Mi ha infastidito l'indifferenza della gente che non scendeva ad Ellis Island per vedere il museo dell'immigrazione che ha reso grande questo paese pieno di acri di terra da dividere e preferiva fotografarsi davanti alla statua della Libertà, così deludente nella sua riproduzione mignon in presa diretta.
Altre cose mi hanno piacevolmente colpito.
La gentilezza degli autisti di bus che non trovano affatto strano fermare il mezzo lungo la strada per accompagnare la signora in carrozzina al posto a lei riservato, dopo aver abbassato la pedana.
La risata della commessa che ha imparato un poco di spagnolo e per quello si sente pronta a provare a parlare italiano.
I sorrisi di sconosciuti passanti che incroci e che accennano un anonimo saluto in una città così piena di gente e dove, per sentirsi soli e protetti, basta abbassare il volto sullo schermo del telefonino.
Mi è piaciuta la solare allegria del centro di Harlem, la placida serenità di Central Park, il papà con il cappellino a cono in testa intento a far giocare la figlioletta a Bryant Park, le partite a bocce avvincenti come le sfide nel campetto di basket.
Mi è piaciuto ballare in metropolitana, senza sembrare una tarantolata, al ritmo di "Guantanamera", cantata da un vecchio suonatore.
Mi è piaciuto ascoltare le persone parlare ad alta voce con nelle orecchie chissà quale interlocutore telefonico.
Mi è piaciuto perdermi nell'architettura verticale e sognare una casina di legno tutta mia tra le casette del Village.
Mi è piaciuta e mi ha pure infastidito tutta questa moltitudine umana che cerca ogni giorno a fatica di vivere assieme.
Mi è piaciuto il dormiveglia del dover camminare tanto per vedere e cercare di capire.
E ora vorrei il sonno profondo, che fatica ad arrivare. Per pensarci su meglio.
domenica 20 luglio 2014
Vispità
Si avvicina sempre di più. Io faccio finta di niente. Mi continuo a ripetere, guardandomi allo specchio, che nulla è cambiato. Eppure la ruga sulla fronte c'è. Mi dico che è di espressione,
che aggrotto la fronte quando penso e siccome mi pare a volte che penso pure troppo, allora ecco là la ruga. In fronte.
Come un taglietto di traverso sopra gli occhi.
Sto invecchiando e anche se ammetto che quando ci penso un poco di fastidio lo provo, devo dire che non ho paura. Almeno, adesso.
Ho giocato con una applicazione per ipad, di quelle che metti una tua foto di oggi, di adesso, e ti mostra come sei da vecchia. Capello lungo grigio, guance che cadono, rughe che paiono tagli. L'occhio però resta vispo.
Forse le moderne applicazioni per giocare ad invecchiarsi sono come i film horror malfatti, dove per un attimo hai paura, ma poi se guardi bene ti accorgi che tutto quel sangue è pomodoro.
E pensare che invecchierò con gli occhi vispi non è male.
che aggrotto la fronte quando penso e siccome mi pare a volte che penso pure troppo, allora ecco là la ruga. In fronte.
Come un taglietto di traverso sopra gli occhi.
Sto invecchiando e anche se ammetto che quando ci penso un poco di fastidio lo provo, devo dire che non ho paura. Almeno, adesso.
Ho giocato con una applicazione per ipad, di quelle che metti una tua foto di oggi, di adesso, e ti mostra come sei da vecchia. Capello lungo grigio, guance che cadono, rughe che paiono tagli. L'occhio però resta vispo.
Forse le moderne applicazioni per giocare ad invecchiarsi sono come i film horror malfatti, dove per un attimo hai paura, ma poi se guardi bene ti accorgi che tutto quel sangue è pomodoro.
E pensare che invecchierò con gli occhi vispi non è male.
domenica 13 aprile 2014
Torino - San Salvario
Sono stata due giorni a Torino, dovevo presentare "La castagna matta" alla casa del quartiere di San Salvario. Non vi racconterò della presentazione: quel che c'è da dire è che c'erano Lele e Luca di Blonk, c'era alcuni amici come Laura, Marco, Zales e Chiaralice. C'era, con me, il re di tutti i re e andare con lui a zonzo per Torino, città di monarchi, è stato perfetto.
Piuttosto vi dirò di San Salvario, della casa di quartiere, creata ai Bagni municipali dove operano tante associazioni assieme. C'è un bar, c'è la cucina che sforna piatti per l'aperitivo, ci sono le rassegne musicali di Federico Sirianni, c'è lo spazio per tante iniziative come la presentazione di librini come il mio. La casa di un quartiere che si affaccia, come mi hanno spiegato due anziane amiche a passeggio, su una piazzetta dove in passato il problema principale era lo spaccio, e c'è chi pensa ancora che sia una zona brutta, ma quella casa, piena di gente e di bambini, e di persone diverse che si incontrano e imparano sempre qualcosa, segnala che se si vuole si può fare. Certo, ci vogliono sostegni; certo occorre mettere da parte protagonismi e invidie da primedonne, che sono frequenti tra le associazioni; certo ci vuole una alleanza con le categorie, come quelle dei commercianti, che vanno coinvolti per non vedere l'iniziativa solo una concorrenza sleale; ci vuole un progetto che attraverso il lavoro sociale produca un cambiamento che valorizzi un intero quartiere, trasformando il degrado in risorsa.
San Salvario, con la sua esperienza, mi dice che si può fare, ci vuole tenacia e obiettivi ben chiari. Ci vogliono reti, intrecci, rapporti, alleanze.
Una bella prospettiva.
Piuttosto vi dirò di San Salvario, della casa di quartiere, creata ai Bagni municipali dove operano tante associazioni assieme. C'è un bar, c'è la cucina che sforna piatti per l'aperitivo, ci sono le rassegne musicali di Federico Sirianni, c'è lo spazio per tante iniziative come la presentazione di librini come il mio. La casa di un quartiere che si affaccia, come mi hanno spiegato due anziane amiche a passeggio, su una piazzetta dove in passato il problema principale era lo spaccio, e c'è chi pensa ancora che sia una zona brutta, ma quella casa, piena di gente e di bambini, e di persone diverse che si incontrano e imparano sempre qualcosa, segnala che se si vuole si può fare. Certo, ci vogliono sostegni; certo occorre mettere da parte protagonismi e invidie da primedonne, che sono frequenti tra le associazioni; certo ci vuole una alleanza con le categorie, come quelle dei commercianti, che vanno coinvolti per non vedere l'iniziativa solo una concorrenza sleale; ci vuole un progetto che attraverso il lavoro sociale produca un cambiamento che valorizzi un intero quartiere, trasformando il degrado in risorsa.
San Salvario, con la sua esperienza, mi dice che si può fare, ci vuole tenacia e obiettivi ben chiari. Ci vogliono reti, intrecci, rapporti, alleanze.
Una bella prospettiva.
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